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Il 9 aprile a TEDxROMA Samson Kambalu, artista e scrittore malawiano: l’intervista

L'artista africano sarà ospite dell'evento previsto a Roma per parlare del suo lavoro tra letteratura, installazioni, video e performing art

Di TPI
Pubblicato il 2 Apr. 2016 alle 19:46

Al giorno d’oggi essere un Game Changer non è semplice. Il
mondo in cui viviamo è molto competitivo e per apportare un reale cambiamento
ci viene chiesto di essere creativi e curiosi. Di ispirare gli altri rimanendo
fuori dal cerchio.

Samson Kambalu, artista e scrittore malawiano, quest’anno è
stato invitato a TEDxROMA (a Roma il prossimo 9 aprile), per rappresentare il
settore dell’arte visiva.

Il suo è un lavoro che si sviluppa attraverso la
letteratura, le installazioni, il video e la performing art, media che gli
permettono di utilizzare sarcasticamente trasgressione, umorismo, eccesso e
arguzia e di sovvertire in maniera pungente i limiti di tutte quelle idee e
quei concetti legati alla storia, all’arte, all’identità, alla religione e alla
libertà individuale.

Artista di fama internazionale, ha
esposto nei più importanti appuntamenti di arte contemporanea: Tokyo’s
International Art Festival (2009), Biennale di Liverpool (2004); Biennale di
Dakar (2014); Biennale di Venezia (2015) e quest’anno lo vedremo nuovamente
alla Biennale di Dakar, alla Biennale di Liverpool, a Art Basel e a Frieze.

Un paio di giorni fa ci siamo incontrati qui a Londra e
chiacchierando abbiamo cercato di capire cosa serve per essere un Game Changer
nel mondo dell’arte contemporanea, analizzando il suo modo di usare l’arte come
strumento per fare realmente la differenza nella società di oggi e di domani.

GRIOT: Sei stato
invitato a TEDxROMA per rappresentare tutti quegli artisti che sono dei Game
Changers dei nostri tempi. Fino a che punto pensi che la visual art
contemporanea possa cambiare il modo in cui le persone sentono e percepiscono
il mondo che le circonda, portando quindi gli individui a vivere un futuro
migliore?

Samson Kambalu: Ricordando alle persone quale sia il dono.
Penso sia questo il ruolo dell’arte contemporanea. Portare le persone a
pensare, a chiedersi cosa significhi “dare” e cosa sia il dono. Parlare di dono
significa guardare all’arte in maniera appropriata. Arte che va oltre il
concetto di merce, prodotto. Arte che va oltre l’investimento. Arte che va
oltre essere di moda.

L’arte deriva dall’economia del dono. Oggi invece tutto
viene commercializzato. Quando fai qualcosa, devi spiegare cosa stai facendo in
termini di utilità. L’arte è un’area dove non è molto chiaro cosa stai facendo.
È qualcosa di intangibile. Quello che ricevi dall’arte non può essere calcolato
e questo fatto la rende una professione speciale perchè la maggior parte dei lavori
sono a scopo utilitario. Perciò l’arte occupa un posto unico nella società
contemporanea e il suo valore risiede altrove.

Il quotidiano The
Guardian ti ha descritto come “One of the artists to colour the future”. Tra I
vari oggetti associati alla tua pratica c’è la Holy Ball, la Palla Sacra, un
pallone rivestito di pagine strappate dalla Bibbia. Hai affermato che con
questo lavoro in pratica hai invitato le persone ad “esercitarsi ed
esorcizzarsi”, prendendo a calci questo oggetto. Che reazioni hai visto? In che
modo ritieni che questo tuo lavoro stia cambiando il mondo dell’arte
contemporanea?

Sono cresciuto in Malawi e la religione lì è importante. Di
solito gli europei non vogliono ascoltare cose legate alla religione. Pensano
che la loro società abbia voltato pagina. Considerano la religione più come una
società secondaria, rendendo difficile che gli europei se ne interessino.

Credo che Holy Ball sia un lavoro apprezzato sia da persone
di fede che non. Se stessi in mezzo alla strada con una bibbia in mano, nessuno
mi verrebbe a parlare. Se invece al posto della Bibbia avessi un pallone, tutti
si avvicinerebbero per parlare con me. E sono stato in grado di parlare di cose
molto interessanti e importanti grazie ad un pallone.

In pratica il pallone ha agito da collante, da mediatore tra
passato e presente. Ti saresti sorpresa nel vedere di come alcune persone
leggevano le pagine della bibbia incollate sulla palla, altre che la
calciavano, altre che invece pensavano non dovesse essere fatto, altre che fosse
una cosa buona. Ognuno ha il proprio punto di vista.

La Holy Ball è aperta a qualsiasi interpretazione: ognuno
porta con sé la propria storia e questo per me è il punto dell’arte. Arte è
creare relazioni, connettere le persone che altrimenti non sarebbero connesse.
La Holy Ball rende il mondo nuovo. Guarda alla religione con in mente il
futuro.

Il tuo lavoro si
ispira al Malawi, un paese dove c’è il culto del Nyau che incorpora al suo
interno proverbi, mimica, un sofisticato gioco di ruoli inversi e satira sotto
forma di performance. Quando descrivi il tuo lavoro parli di “gioco creativo”.
È questo tuo approccio all’arte, alla vita, che ti distingue dagli altri
artisti e individui?

Uno dovrebbe domandarsi: “perché giocare”? Il Malawi non è
una società fondata sui beni. È un posto dove il dono riveste ancora una
certa  importanza. Infatti le società
africane, in generale, sono basate sul dono.

Ti faccio un esempio. Se io faccio soldi, li condivido con
la mia famiglia, perchè viviamo in una sharing economy. Ma il problema legato
alla condivisione è che genera risentimento. Quando dai qualcosa a qualcuno,
questo qualcuno si sente in dovere di ridarti a sua volta qualcosa. Quindi
dare, ricevere, non è qualcosa di necessariamente semplice.

Per i Chewa, la tribù di cui faccio parte, quando giochi è
come quando festeggi: puoi bere tutti i drink che vuoi senza sentirti in colpa.
La tribù ha il compito di gestire la distribuzione dei doni mentre le maschere
orchestrano il gioco. Quando compaiono le maschere, inizia la festa.

Per me è questo il ruolo dell’artista contemporaneo.
L’artista contemporaneo oggi può orchestrare il gift-giving nel gioco. Credo
che come artista contemporaneo sto svolgendo lo stesso ruolo di una maschera
africana che orchestra il gioco: creare relazioni e connettere le persone per
rendere questo mondo un posto migliore.

Hai scritto un libro
autobiografico, The Jive Talker, che ha vinto il Winner of the National Book
Tokens ‘Global Reads’ Prize. In questo libro ci introduci alla storia del
Malawi ma anche a un bambino ossessionato da Micheal Jackson,  Nietzsche e Frida Kahlo. Credi che per avere
successo bisogna studiare e guardare a figure simbolo del passato? Questi
personaggi che influenza hanno avuto sul tuo lavoro?

Dicono che la tecnologia abbia trasformato il mondo in una
fotografia. Quindi la tecnologia ha reso il mondo più piccolo. Non possiamo
nascondere questa cosa. Noi tutti ci vediamo come una contingenza della storia,
parte della storia e dobbiamo studiare il passato e imparare da esso. Non si
può più guardare al mondo come se fosse pazzo.

Il successo per me è guardare il mondo con gli occhi di un
cosmopolita. Che sia un italiano, un africano o americano, penso che per
funzionare oggi dobbiamo concepire il mondo come una cosa sola. Ti rende più
versatile. Se poi dai uno sguardo all’immagine più grande, è più semplice
aggiustare le cose.

Lo stesso vale per un artista: devi fare attenzione a quello
che ti succede intorno, da dove vengono le cose e quale tecnologia ti viene
portata. Devi imparare e giocare con la storia. E penso che non esiste un modo
per poter evitare questo processo.

È vero che a undici
anni hai fondato una tua religione, l’Holyballism [culto del pallone sacro]? Mi
racconti cos’è esattamente? Che importanza ha nella tua vita e nella tua arte e
che ruolo ha avuto nella tua carriera?

Sono cresciuto con la religione cristiana e nyau. I Chewa
trovano la religione nel gioco. Nel Cristianesimo il senso del gioco è stato
perso. Ma se guardi al Cristianesimo primitivo, nasce tutto per gioco. Se vai
indietro nel tempo, alle catacombe romane, quello che i cristiani facevano
all’inizio erano molto giocoso e Cristo dice “…Chi tra voi è più grande diventi
come il più giovane…“ (Vangelo di Luca, 22, 24 – 30).

Quando ho cominciato a rivalutare la mia educazione
cristiana, si trattava per lo più di rieintrodurre il fattore gioco, quindi ho
trasformato la mia bibbia in un pallone. Ritrovare la religione nel gioco
significa abbracciare qualcosa che riconnette la religione Africana a quella
occidentale. Sono cresciuto con tutte e due. Quindi quando ho cominciato a
giocare, non mi sentivo più in conflitto. Potrei andare in Africa, a Roma e
sentirmi a casa allo stesso modo. Il gioco è universale e giocare con la
religione per me è la verità, è ciò che conta.

In un’intervista per
la Biennale di Venezia hai affermato che il futuro per te è “creatività, gioco,
cosmopolitanismo, il mondo come una cosa sola. Uniti nel gioco”. Essendo nato e
cresciuto in Africa, pensi che la tua arte sia in qualche modo di aiuto al tuo
continente e paese? Se sì, in che modo?

Quando lavoro, mentalmente sono sempre in Africa. Parlo
sempre di Nyau, dell’importanza del gioco e del gift-giving  (del donare). È questo ciò che faccio: parlo
del mio lavoro e dell’Africa.

Sono orgogliosissimo di essere un Chewa, di essere un vero
africano, ma non come da cliché o quello che si aspetta la gente. Per me
l’Africa è un luogo molto dinamico, moderno, costruito intorno al gioco. Questo
significa che diamo un senso alle cose partendo da niente.

Funziona così in Africa. È un posto dove l’improvvisazione è
tutto. È questo ciò che porto nel mio lavoro. Porto il Malawi con me. Gli
africani vedono il mondo sempre come una cosa sola. In Africa esiste
l’universitalità. Le divisioni fanno parte della storia coloniale. Sono nate
così.

Inoltre, portando dentro il mio lavoro questa filosofia,
riesco a connettere le persone e anche questa cosa è tipicamente africana.
Porto il tempo africano. Un tempo che non ha un inizio, né una fine. È un tempo
non lineare, focalizzato sul presente. Cerco sempre di godere quanto più mi è
possibile del presente, di far capire alle persone l’importanza del “qui e
ora”. E questo è un altro modo in cui l’Africa è in me: la caccia dell’istante,
del momento.

Una cosa che mi ha
colpito molto del tuo percorso è il tuo curriculum. Hai preso un Bachelor of
Arts in Belle Arti e Etnomusicologia; un Master of Fine Art alla Nottingham
Trent University e un PhD al Chelsea College of Art and Design. Che ruolo
riveste l’istruzione nel successo di un artista?

In Africa l’iniziazione alla vita adulta è legata
all’iniziare a conoscere la società dall’alto al basso. Per me lo studio serve
a questo. Ma può anche essere un buona scusa per trascorrere degli anni da
bohemien.

Non pensare perciò che vada a scuola solo per imparare. Vado
lì perchè amo leggere. Leggere e studiare è uno stile di vita. Sono alla base
dell’istruzione. È quello che pensavano anche i Greci e i Romani. Uno stile di
vita.

Studiare non significava ottenere una promozione. Era tutto
legato alle virtù. L’istruzione può essere qualcosa di divertente.

Il tuo prossimo passo
da Game Changer?

Ti ho parlato delle mie prossime mostre ma pubblicare una
tesi di dottorato sulla Filosofia Nyau mi renderebbe molto orgolgioso e felice.
La Filosofia Nyau spiega l’atto del donare, le varie sfaccettature della
società africana e la mia arte. Parla di dono e non di beni. Se sai cos’è un
dono, riuscirai a capire il pensiero e i merti della società africana. Voglio
presentare al mondo la Filosofia Nyau.

— 

Samson Kambalu sarà presente sabato 9 aprile all’Auditorium
Parco della Musica di Roma per la 4° edizione di TEDxROMA: GAME CHANGERS.

Dalle 9:30 alle 18:00

Questo articolo di Aloisia Leopardi è stato originariamente pubblicato su Griot con il titolo Game Changers | Samson Kambalu | Il ruolo del gioco nell’arte e nella vita

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