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    “Ho vissuto otto mesi nella foresta”: le storie dei migranti a Ceuta, dove l’Africa tocca l’Europa

    Abdellah Camara, del Gambia, mostra le cicatrici delle ferite che si è procurato durante il salto della recinzione tra il Marocco e Ceuta lo scorso agosto. Credit: Cecilia Butini

    Reportage dall'enclave spagnola in Marocco: i racconti di chi sogna un futuro migliore, tra violenze e diritti negati

    Di Cecilia Butini
    Pubblicato il 20 Ott. 2018 alle 14:05 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 20:38

    Nel settembre del 2017 Lamah Odilon era in viaggio da un anno. Era partito dal suo Paese, la Guinea, aveva attraversato il Mali e l‘Algeria e in Libia aveva comprato un posto su un barcone in partenza per l’Italia.

    Due ore dopo essere salpata, la barca fu intercettata dalla Guardia costiera libica e rimandata al porto di Sabrata. Odilon, insieme ai suoi compagni di viaggio, fu messo in un centro di detenzione per tre mesi, da cui riuscì a uscire grazie a una rivolta dei detenuti. A quel punto la sua destinazione era il Marocco.

    “In Libia non ha funzionato”, racconta in francese. “È pericoloso lì, mettono la gente in prigione, ai migranti danno la caccia, ti vogliono fermare. In Marocco è un po’ meglio”.

    Quasi un anno dopo Odilon è arrivato in Europa, ma senza mettere piede in mare. È uno dei circa 1.500 migranti che quest’anno hanno attraversato la barriera di filo spinato che divide il Marocco da Ceuta, l’enclave spagnola dirimpetto a Gibilterra soprannominata ‘Porta dell’Africa’, uno dei due soli punti dove il continente africano e l’Unione europea si toccano.

    Una traversata in cui si muore meno che in mare, ma che non è mai facile. “Ho vissuto otto mesi nella foresta”, dice Odilon.

    Ceuta è separata dal Marocco da una zona semi-militarizzata, con una doppia recinzione di filo spinato alta 6 metri che corre tutto intorno al perimetro della città, arrampicandosi su montagne e zone boscose. Dalla parte marocchina, il bosco è il luogo dell’attesa.

    “Non mi sono lavato per quattro mesi”, ricorda John, 28 anni, originario del Gambia. “Ho dormito nel bosco, quando pioveva costruivamo delle tende con teli di plastica. Eravamo in 700 lì”. In 700 ad aspettare il momento buono, la mattina presto, per arrampicarsi sul filo spinato e tentare di prendersi un posto in Europa.

    Ad agosto 2018 Odilon e John ce l’hanno fatta, insieme ad altre centinaia di migranti che durante l’estate sono sfuggiti ai tentativi di respingimento delle autorità marocchine e della Guardia Civile spagnola.

    Ora sono tutti nel CETI, il centro di accoglienza di Ceuta, le cui condizioni il Consiglio d’Europa ha recentemente denunciato. Fino a quando, non lo sanno.

    “I militari marocchini arrivavano verso le 5 o le 6 del mattino, ci inseguivano, noi scappavamo”, racconta John. “La polizia marocchina odia le persone nere. Ti picchiano, ti tirano pietre. Non è facile, non è facile entrare in Europa, sai. Se riesci a saltare la recinzione, bene, grazie a Dio. Se non riesci, ti deportano”.

    Migranti camminano lungo il muro di cinta del CETI, il centro di accoglienza temporanea per migranti. Credit: Cecilia Butini

    Secondo Khadija Anani, dell’Associazione Marocchina per i Diritti Umani, “la violenza delle autorità intorno a Ceuta e Melilla (l’altra enclave spagnola in Marocco) è sempre doppia”.

    “Ad ogni tentativo di passaggio, da una parte c’è la Guardia Civile spagnola che usa la forza contro i migranti subsahariani che cattura. Dall’altra si sono le autorità marocchine che prendono i migranti, li portano in centri di detenzione informali per poi deportarli in regioni lontane, di solito verso il sud del Marocco, a 500 o 800 chilometri”, sottolinea Anani.

    È capitato anche a Odilon: “Ci hanno presi, ci hanno portati a Casablanca, siamo rimasti un po’ lì, abbiamo racimolato un po’ di soldi, e siamo tornati alla frontiera. Avevamo fretta di entrare qui”, dice.

    Per alcuni la connessione tra le politiche anti-migratorie del governo Lega-M5S e l’inasprirsi della crisi migratoria in Spagna è ovvia. Un fattore determinante sarebbe poi l’assenza, in Spagna, delle mostruose violazioni dei diritti umani in cui incorre chi tenta ancora di raggiungere l’Italia attraverso la Libia.

    L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) avverte però che la correlazione non è documentata. “I migranti che sono in Spagna ora sono partiti prima della chiusura della rotta libica, ovvero otto mesi o un anno fa. Alcuni trafficanti magari hanno offerto di fare rotta verso il Marocco e i migranti si sono ritrovati lì”, dice Flavio Di Giacomo dell’OIM.

    Sempre secondo l’OIM, i migranti che arrivano a Ceuta solitamente non rimangono più di cinque o sei mesi e vengono poi spostati in centri di accoglienza nella Spagna continentale. Ma ciò avviene solo quando si liberano posti, senza uno schema temporale preciso, e l’attesa rimane l’attività principale per molti.

    Barry Mamadou Abdoulaye ha solo 19 anni, sogna di stabilirsi in Francia e di diventare un cantante. Dal suo cellulare esce continuamente musica.

    Dopo due anni di viaggio dalla Guinea al Mali, dal Mali all’Algeria e dall’Algeria al Marocco, dopo otto mesi passati a Rabat mangiando dalla spazzatura e una settimana nella foresta prima di saltare il confine, Barry trova che la sua vita a Ceuta sia migliorata. “Mi lavo, dormo in un letto, mangio” dice.

    Barry Mamadou Abdoulaye ha 19 anni e viene dal Gambia. Spera di poter raggiungere la Francia e di diventare cantante, un giorno. Credit: Cecilia Butini

    Ma intorno al CETI, dove tutta l’Africa pare ritrovarsi seduta sui muretti fuori dal cancello, l’euforia di essere in Europa è stata in gran parte sostituita dalla noia e dal malumore.

    Alcuni tentano di racimolare qualche soldo facendo i parcheggiatori abusivi in città o chiedendo l’elemosina fuori dal centro commerciale vicino al porto. Lo si fa per un euro o due, per potersi permettere una bibita o una sigaretta.

    Sul muro del parcheggio che un gruppetto di ragazzi in gilet fosforescenti pattuglia tutti i giorni in cerca di macchine a cui dare indicazioni. Qualcuno ha sfogato la propria esasperazione con un pennarello: “Fuck Ceuta. Zero collaborazione”.

    É cambiato forse qualcosa da quando più e più persone tentano di scavalcare la recinzione dal Marocco, o da quando l’Italia ha preso accordi con la Libia, di fatto riducendo il numero di arrivi di migranti in Sicilia e aumentando, almeno in parte, i numeri sulla rotta marocchina?

    Secondo Pilar Alba Dìaz, che lavora a Ceuta da quattro anni con varie organizzazioni umanitarie, a essere cambiato è solo il modo in cui i migranti decidono di raggiungere l’enclave.

    “L’immigrazione in questa città è presente sin dagli anni Novanta, non è niente di nuovo. Ci sono stati anni in cui più gente è arrivata per mare, altri in cui ne sono arrivati di più saltando la frontiera. Tutto cambia in relazione agli interessi politici, al rapporto della Spagna col Marocco” dice. “I migranti sono, alla fin fine, moneta di scambio nelle politiche di frontiera”.

    In effetti, qualcuno che potrebbe condividere l’esternazione sul muro c’è. Un gruppo di migranti algerini si ferma a parlare per strada, di ritorno al CETI. Sembrano nervosi, stanchi. “Siamo qui da un anno”, dice una donna. “Non sappiamo perché ci tengono qui, mentre quelli di altri paesi li mandano avanti in Spagna. Perché noi no?”.

    La Spagna sigla accordi per i rimpatri con paesi nordafricani come l’Algeria, ma non con gran parte dei paesi dell’Africa subsahariana, come spiega Di Giacomo dell’OIM.

    In assenza di un accordo, e una volta che una persona ha messo piede a Ceuta scampando alle deportazioni-lampo della Guardia Civile lungo la recinzione, il suo iter in qualche modo procede. Per altri, può non esserci alternativa al rimanere fermi qui ed essere, dopo lungo tempo, rimandati indietro.

    Ma chi decide di passare mesi all’aperto mangiando dalla spazzatura e di tagliarsi le mani sul filo spinato della recinzione non pare farlo senza motivo, come ricorda Lamah Odilon. “Non c’è scelta”, dice. “Questo era il nostro sogno, la nostra preoccupazione era di entrare qui, veniamo in Europa solo perché qui ci sono diritti umani, non c’è la guerra, c’è sicurezza. È così. Siamo semplicemente arrivati”.

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