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    Siria, parla a TPI la Ong italiana colpita dall’esercito turco: “Le bombe di Erdogan ci stanno distruggendo”

    Un Ponte Per, la Ong bombardata dall'esercito turco a Nord Est della Siria, racconta delle minacce alla comunità internazionale poste dal conflitto

    Di Marta Vigneri
    Pubblicato il 15 Ott. 2019 alle 18:19 Aggiornato il 18 Nov. 2019 alle 19:01

    La Ong italiana colpita dai raid turchi parla a TPI dei pericoli dell’offensiva per l’azione umanitaria

    Duhok, Kurdistan iracheno, siamo a pochi chilometri dal confine con la Siria.

    È qui che lo staff internazionale della Ong Un Ponte Per è stato trasferito dopo l’evacuazione da Serekanyie/Ras Al Aine, a Nord Est della Siria, dove le truppe di Erdogan hanno bombardato un presidio sanitario d’emergenza della Mezza Luna Rossa curda, il partner locale della Onlus italiana che opera nel Paese da oltre quattro anni e mezzo.

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    Luca Cafagna è il project manager che gestisce le operazioni della Ong in Siria, tra cui un progetto sulla salute e la protezione delle donne a Raqqa, nel sud del Paese, e racconta come l’offensiva turca lungo il confine abbia destabilizzato l’azione umanitaria sia a Nord Est, dove sono in corso i combattimenti con l’Unità di protezione del popolo curdo (Ypg), che più a sud della frontiera, nelle zone dove la popolazione civile colpita dai raid cerca rifugio.

    “Tre giorni fa è stato colpito un trauma stabilization point, un punto di soccorso che si colloca vicino le linee di combattimento in cui arrivano i feriti prima di essere trasportati in ospedale. Questi punti sono fondamentali per l’azione umanitaria sopratutto durante un conflitto, e sono normalmente tutelati dalla Convenzione di Ginevra. Ma domenica sono stati bombardati da colpi di artiglieria: 2 operatori sanitari sono rimasti feriti, 4 pazienti sono stati evacuati”, racconta Cafagna.

    Domenica 13 ottobre Erdogan ha conquistato la città di Tel Abyad, dove pochi giorni prima era stato bombardato e distrutto un ospedale. Non è stato l’unico, perché sempre durante la stessa offensiva sono stati colpiti due ospedali a Serekanye/Ras Al Ain e a Kobane, lungo il confine turco siriano.

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    Sempre più strutture sanitarie e umanitarie sono bersaglio dell’offensiva turca, contrariamente a quanto previsto dalle Convenzioni di Ginevra, che proteggono le associazioni umanitarie nelle zone di guerra, e che dovrebbero assicurare il rispetto del personale civile e di quello medico non coinvolto negli scontri.

    “Strutture sanitarie, Ong e infrastrutture civili non possono essere colpite indiscriminatamente dai bombardamenti. In questi giorni è stato colpito anche un impianto di rifornimento idrico, che rifornisce l’area di Al Hasakah, a sud, dove vivono centinaia di sfollati interni a 100 chilometri dal confine turco siriano: ora sono rimasti senza acqua”, racconta ancora Luca.

    “Lungo tutto il confine ci sono bombardamenti costanti, le persone scappano verso sud, a sud di Kobane, a Raqqa, nel governatorato di Al Hasakah. Ma anche queste città rifugio rimangono senza servizi se le infrastrutture di base vengono bombardate. È questo il più grande problema che condanniamo. Quando hai come bersaglio civili e infrastrutture la situazione può raggiungere livelli inimmaginabili: è la barbarie

    Luca vive in Kurdistan iracheno da quattro anni ma non aveva mai assistito a un tale livello di insicurezza.

    E racconta che, secondo le informazioni fornite dalla Mezza Luna, i loro bersagli nel nordovest della Siria sono stati colpiti deliberatamente e in modo reiterato.

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    Ora non c’è più sicurezza per gli operatori umanitari delle organizzazioni che operano in Siria, già in passato vittime di rapimenti durante una guerra che è in corso da otto anni.

    Un Ponte Per è arrivato nel Paese nel 2015, quando ha portato i primi aiuti umanitari, ma fino a questo momento non c’era mai stata una potenza Nato ad invadere il territorio.

    E negli ultimi anni, racconta Luca, il Nord Est era diventato un luogo sicuro e stabile grazie alla sconfitta di Daesh da parte dell’esercito curdo.

    La popolazione beneficiaria delle operazioni umanitarie nel Rojava stava iniziando a delineare progetti di vita, a pensare al proprio futuro, e la comunità internazionale stava gradualmente designando un piano di sviluppo del territorio dopo gli interventi di emergenza.

    “Lavoriamo in Siria da quattro anni e mezzo, in questi ultimi due anni l’area era diventata stabile, non c’erano combattimenti, il numero di attacchi si era ridotto e Daesh era sotto controllo. Negli ultimi sette giorni, in seguito all’offensiva improvvisa, i soldati di Daesh sono tornati liberi, e rappresentano di nuovo un pericolo per la Siria e per l’Europa, perché i soldati Isis e foreign fighters tornano ad avere la possibilità di imbracciare le armi”, racconta Luca riferendosi al pericolo posto in essere dalla fuga di migliaia di soldati Isis e dei loro affiliati resa possibile dai bombardamenti dell’esercito turco nelle carceri presidiate dai curdi prima del conflitto.

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    Domenica 13 settembre, almeno 800 affiliati dell’Isis sono fuggiti dal campo di Ayn Issa, una delle principali località in cui Ankara ha compiuto i primi raid, dove ci sono 12mila persone tra cui mogli e vedove di combattenti con i loro figli. L’11 ottobre, due giorni dopo l’inizio dei bombardamenti da parte del governo di Ankara, la polizia curdo-siriana ha represso una protesta di donne nel campo profughi di al Hol, nell’est del Paese al confine con l’Iraq, dove sono ammassate circa 70mila persone, per lo più donne e bambini familiari di combattenti Isis uccisi o imprigionati.

    “Gestivamo 15 strutture tra cliniche e ospedali, anche il resto della comunità internazionale aveva lavorato molto per portare servizi di pace e si cominciava addirittura a disegnare un quadro di stabilizzazione e sviluppo dell’area. Riuscivamo a lavorare con l’amministrazione locale e insieme si stava delineando un processo di sviluppo. Ora è stato tutto bloccato”, racconta ancora Luca.

    E conclude: “La Siria è in guerra da otto anni, dopo la sconfitta di Daesh, il livello di sicurezza era altissimo e le persone stavano pianificando il loro futuro. Quanto successo adesso distrugge tutti i risultati della nostra azione umanitaria”.

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