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    “Sono andato in Siria a combattere contro l’Isis, ma per la Francia ormai sono io quello pericoloso”, la storia di André

    Credit: Delil souleiman / AFP
    Di Futura D'Aprile
    Pubblicato il 13 Mag. 2019 alle 17:05 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 23:30

    Siria Isis Francia combattente | André Hébert* ha lasciato la Francia nel luglio del 2015 per andare a combattere in Siria contro l’Isis e sostenere la rivoluzione del Rojava, un esperimento politico-sociale basato sulla libertà delle donne, sulla democrazia dal basso e sul rispetto dell’ambiente.

    André non è stato il primo né l’ultimo a compiere questa scelta, né tantomeno l’unico occidentale, ma il suo caso ha attirato l’attenzione delle forze dell’ordine francesi prima e dei media poi.

    Cinque mesi dopo il suo rientro in Francia, avvenuto a luglio del 2016, è stato accusato di avere legami con organizzazioni terroristiche per essersi unito come volontario alle YPG, le Unità di protezione popolare curdo-arabe sostenute dalla coalizione internazionale.

    Perché sei andato in Siria?

    Perché sono un attivista di sinistra fin dall’adolescenza e condivido quelli che sono i principali obiettivi della Rivoluzione del Rojava: democrazia dal basso, emancipazione delle donne, ecologia, una società diversa da quella capitalista.

    Ho deciso di partire per la Siria quando ho saputo della battaglia di Kobane. In Francia se ne parlava molto e quando ho capito che i curdi lottavano per portare a compimento quegli stessi cambiamenti che anche io volevo vedere nella società europea ho deciso di partire. In Siria c’è una vera e propria guerra, per questo i curdi e tutti coloro che fanno parte della Rivoluzione hanno dovuto imbracciare le armi.

    Cosa è successo quando sei tornato la prima volta in Francia?

    Appena arrivato sono stato convocato dai servizi segreti del ministero dell’Interno. Mi dissero che era tutto ok, che era solo una procedura. Mi hanno chiesto perché ero andato in Siria, cosa avevo fatto e se c’erano altri francesi là. Nient’altro. Quando stavo per andarmene mi fecero capire che non avrei dovuto raccontare troppo in giro che in Rojava c’erano dei francesi, ma che in generale non avrei avuto problemi con la giustizia.

    Ma così non è stato. Quando 5 mesi dopo ho deciso di partite nuovamente per il Rojava la polizia è arrivata a casa mia la mattina e mi ha sequestrato la carta di identità e il passaporto, consegnandomi un foglio in cui mi si accusava di avere legami con organizzazioni terroristiche e di essere un pericolo per la società. Secondo loro avrei potuto usare le conoscenze militari che avevo acquisito in Siria contro lo Stato.

    A quel punto ho contattato il mio avvocato per ricorrere contro la polizia e avere indietro il mio passaporto. Cinque mesi dopo il Tribunale amministrativo mi ha dato ragione riconoscendo che le YPG non sono una organizzazione terroristica e stabilendo che tutte le accuse contro di me non avevano fondamento: le YPG non erano un’organizzazione terroristica; io non ero un mercenario; non c’erano prove che avessi commesso crimini di guerra.

    Ho anche raccontato ai giudici di aver visto le Forze Speciali francesi addestrare le YPG e la polizia non ha mai confermato né smentito.

    Perché pensi che ti abbiano accusato?

    Perché forse sono stato il primo o uno dei primi attivisti ad essere andato in Siria nel 2015 e volevano inviare un messaggio: “Se sei comunista o anarchico meglio non andare in Rojava o una volta in Francia sarai considerato pericoloso”.

    Penso volessero usarmi come esempio, ma non ha funzionato. Non avevo precedenti, non avevo collegamenti con organizzazioni terroristiche e sapevo da principio che andare in Siria non era illegale, infatti non ho mai cercato di nasconderlo. Per tutte queste motivazioni – e non solo – il giudice ha capito che non ero un pericolo per lo Stato.

    Sei stato l’unico ad essere perseguito?

    So di altri compagni che hanno avuto piccoli problemi con la legge, ma sono l’unico che si è visto arrivare la polizia la mattina a casa per sequestrare passaporto e carta di identità. Almeno che io sappia.

    Conosco altri tre ragazzi che sono andati in Siria prima di me per combattere Daesh e la sua terribile visione del mondo, ma non sostenevano la rivoluzione del Rojava come invece ho fatto io. Per questo loro non erano un problema per la polizia francese, a differenza mia. Le forze dell’ordine avevano paura che volessi esportare la rivoluzione anche in Francia, si sono lasciate accecare dalla loro stessa paranoia.

    I principi della rivoluzione del Rojava possono valere anche per noi in Europa, ma non il modo in cui vengono applicati. Il vero obiettivo della polizia è escludere determinate persone dalla società perché hanno paura delle nostre idee.

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    Il giudice però la pensava diversamente.

    In questo caso specifico sì. La divisione dei poteri ha davvero funzionato perché il giudice ha capito che non c’era niente di concreto contro di me. Forse per questo un simile episodio non si è ripetuto, perché il mio caso aveva creato un precedente scomodo per la polizia.

    Che ne pensi dei ragazzi che in Italia rischiano la sorveglianza speciale?

    Rivedo lo stesso tipo di paranoia da parte dello Stato e della polizia che ho dovuto affrontare in Francia. 

    Abbiamo rischiato la nostra vita per combattere Daesh, ma a loro non importa. Riescono solo a pensare che vogliamo sfruttare la nostra esperienza per parlare di rivoluzione o per cercare di cambiare la società da cui veniamo.

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    Penso che sia un comportamento profondamente sbagliato e che dovrebbe essere condannato da chiunque: abbiamo combattuto contro il terrorismo e non dovremmo essere perseguiti una volta tornati nei nostri paesi.

    *André Hébert è lo pseudonimo utilizzato dal combattente francese, che preferisce parlare dietro anonimato

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