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    Perché alcune ragazze liberate da Boko Haram ritornano dai loro aguzzini

    Credit: Reuters/Afolabi Sotunde

    Una volta salvate, le donne sono accompagnate per tutta la vita dallo stigma sociale per aver fatto parte del gruppo terroristico e soffrono di difficoltà economiche

    Di Andrea Lanzetta
    Pubblicato il 26 Lug. 2017 alle 10:53 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 21:45

    Alcune delle ragazze sequestrate nel 2014 presso la città nigeriana di Chibok e liberate a maggio si sono rifiutate di tornare a casa insieme alle altre 82 donne salvate dall’esercito nigeriano. Non solo, alcune donne liberate negli anni scorsi sono tornate dai miliziani islamisti che le avevano rapite.

    “Sarà la sindrome di Stoccolma”, ha sostenuto qualcuno nel paese africano. Eppure alcune delle ragazze salvate dalle forze di sicurezza nigeriane sono tornate volontariamente nella foresta di Sambisa, nella Nigeria nordorientale, dove si nascondono sacche di resistenza del gruppo terroristico Boko Haram.

    Un esempio di questo fenomeno è la storia di Aisha Yerima, una donna di 25 anni, rapita dai terroristi nel 2013. Salvata nel 2016 dai militari di Lagos, la donna, durante il suo periodo di custodia definiva quella nella foresta con Boko Haram una vita fiabesca.

    Aisha è stata detenuta per circa otto mesi e ha completato il programma governativo di de-radicalizzazione curato dalla psicologa Fatima Akilu, direttrice esecutiva della Fondazione Neem e principale ispiratrice di tale programma.

    “Ora vedo che tutte le cose che Boko Haram ci ha detto sono state bugie”, raccontava a Bbc la ragazza nel 2016 alla fine della sua detenzione. “Ora quando sento del gruppo alla radio, mi viene da ridere”, aggiungeva Aisha.

    Ma a maggio 2017, meno di cinque mesi dopo essere stata rilasciata, la donna è fuggita dalla sua casa natale di Maiduguri nel nordest della Nigeria per tornare nella foresta con i terroristi che l’avevano rapita.

    “Il trattamento riservato alle donne rapita da Boko Haram non è sempre uguale, dipende intanto dal campo in cui sono detenute e dal comandante che ne è responsabile”, ha dichiarato la dottoressa Akilu. “Le donne che hanno deciso volontariamente di sposare membri del gruppo terroristico sono trattate in modo diverso dalle altre”.

    “La maggior parte della ragazze rapite non aderisce di propria spontanea volontà al gruppo ma chi lo fa riceve privilegi negati a tutte le altre”, sostiene Akilu.

    Aisha, durante il programma di de-radicalizzazione, ha per esempio rivelato che, nella foresta di Sambisa, aveva a disposizione un certo numero di schiavi, era rispettata e aveva una forte influenza sul marito-terrorista. La donna ha confessato inoltre di aver anche accompagnato l’uomo durante i combattimenti con l’esercito.

    “Queste sono donne che, per la maggior parte, prima del rapimento, non avevano mai lavorato, non possedevano alcun potere e nessuna voce nelle comunità, quando, all’improvviso, sono diventate responsabili di gruppi che comprendevano tra le 30 e le 100 donne, ormai completamente sotto il loro controllo”, spiega Akilu.

    “Per queste persone è difficile tornare in una società in cui non potranno mai gestire quel tipo di potere”, ha aggiunto la dottoressa. Secondo l’esperta nigeriana comunque non si tratta solo di una questione di potere.

    I motivi che portano queste ragazze a tornare di propria volontà dai propri aguzzini riguarda lo stigma sociale che le accompagna per tutta la vita per aver fatto parte del gruppo terroristico e le difficile condizioni economiche di una regione impegnata in una guerra che dura ormai da oltre quattro anni.

    “La de-radicalizzazione è solo una parte del processo di recupero di queste persone che deve comportate anche il pieno reintegro nella società”, spiega Akilu. “Il sostegno offerto durante il programma non le segue una volta rilasciate e questo le porta a dover lottare contro la propria comunità ed è proprio questa lotta a che spesso le spinge a tornare nella foresta”.

    Akilu crede che ci siano altri motivi che portino le donne a volontariamente tornare a Boko Haram. Questi includono la stigmatizzazione da una comunità che li tratta come paria a causa della loro associazione con i militanti e di condizioni economiche difficili.

    Eppure, a differenza di altre donne rapite da Boko Haram, che stentano a sopravvivere alle condizioni economiche e ad affrontare lo stigma sociale a cui sono sottoposte dalla società, la vita di Aisha sembrava essere diversa.

    La donna gestiva un’attività ben avviata nel campo del commercio di tessuti, frequentava regolarmente eventi sociali ed era anche attiva sui social network, oltre ad avere una serie di pretendenti.

    “Almeno cinque uomini diversi volevano sposarla”, sostiene sua madre, presentando questa come una prova che la figlia non stesse affrontando nessuna discriminazione da parte della comunità.

    Ma tutto cambiò quando, per telefono, alcune donne che erano già tornate nella foresta, informarono Aisha che il marito appartenente a Boko Haram aveva preso come moglie una sua rivale.

    Da quel giorno, la ragazza si chiuse in casa. “Era sempre triste e smise di uscire, parlare e mangiare”, dichiara la madre. A due settimane da quella telefonata, la ragazza fuggì di casa con il figlio di due anni nato dalla relazione con il terrorista di Boko Haram, lasciando il più grande che aveva avuto con il marito da cui aveva divorziato prima del sequestro.

    “La de-radicalizzazione è complicata dal fatto siamo in presenza di un’insurrezione continua”, sostiene Akilu. “Ma quando hai padri, mariti e figli ancora nel movimento, le donne vogliono essere al loro fianco” spiega la dottoressa.

    Per queste ragazze, il bisogno di stare con l’uomo con cui hanno formato una famiglia può essere più urgente dell’avversione nei confronti di un gruppo responsabile della morte di migliaia di persone.

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