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    Riti tribali in Etiopia

    Le donne Hamer, per dimostrare quanto valgono, si fanno frustare. La storia e le immagini

    Di Enrico Madini
    Pubblicato il 26 Feb. 2015 alle 00:00 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 12:29

    Sono le prime a radunarsi nel luogo della cerimonia, il letto di un fiume in secca. Il sole è ancora alto, quello del primo pomeriggio. Arrivano anche dai villaggi intorno, spesso dopo giorni di cammino.

    Si sono preparate al meglio: hanno impastato le acconciature con terra rossa e burro, indossato le gonne di pelle più decorate e arrotolato le magliette fino a scoprire la schiena.

    È festa per le donne Hamer: nel giorno in cui un ragazzo diventerà adulto camminando sul dorso dei tori, anche loro dimostreranno quanto valgono facendosi frustare.

    Le immagini: vivono nel sud dell’Etiopia. Le migliori sono quelle che sanno meglio sopportare il dolore

    Sì, qui nell’Etiopia del Sud, in questo mondo rurale dove il lavoro grava per lo più sulle loro spalle, le donne migliori sono quelle che sanno meglio sopportare il dolore. E allora il momento per mostrare di essere vere Hamer è arrivato.

    Tutta la tribù freme. Nel fragore di sonagli appesi alle ginocchia e di trombette suonate a gran forza, le donne iniziano a ballare: saltano fino a far tremare il terreno. Cantano e girano in tondo, seguendo il ritmo della donna più anziana. Aspettano i Maz, gli uomini già iniziati, che le aiuteranno a farsi onore.

    Eccoli, finalmente. Arrivano. Hanno piume sulla testa e disegni colorati sulla pelle. Ognuno porta in mano un fascio di verghe sottili. Le donne corrono loro incontro. Li circondano, li strattonano, urlano. Tutte si fanno avanti e vogliono essere le prime.

    I Maz non danno loro soddisfazione. Non subito, almeno. Fanno passare un po’ di tempo e lasciano che le donne si agitino ancora. Alla fine uno degli uomini sceglie chi colpire. Solleva il bastone di fronte alla donna, che continua a saltellare, incitandolo. Le altre si scostano.

    Un attimo, un duello di sguardi, poi il braccio cala violento. Il legno sibila e schiocca sulla schiena: uno, due, addirittura tre colpi, uno dietro l’altro. A volte il ramo si spezza. Non un urlo, non un gesto, non un movimento sul viso di chi viene colpita. Gli occhi brillano orgogliosi, la bocca sorride.

    È solo la prima, le altre seguiranno. Le ferite non sanguinano subito: lo fanno solo dopo un po’, ma nessuno le medica o le copre. Guariranno col tempo. Più vistosa sarà la cicatrice, meglio sarà: tutti potranno ammirarla, sempre.

    Si formano altri gruppetti: altri uomini stanno colpendo altre schiene. Le donne già frustate si allontanano fiere: torneranno più tardi a chiedere di essere picchiate di nuovo. Ballano ancora, anche con la pelle lacerata. Il sudore e la terra delle treccine colano lungo la schiena, si mischiano al sangue. Gocce rosse cadono nella polvere.

    Da lontano, il ragazzo che dovrà camminare sui tori osserva la scena. La sua prova verrà più tardi, al tramonto. Dimostrare il proprio valore per potersi sposare non gli sembra più così difficile.

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