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    Il Regno (Dis)Unito: riuscirà a superare la prova Brexit mantenendo la sua integrità territoriale?

    Fra i compiti più difficili che dovrà affrontare il futuro Premier c’è quello di tenere insieme un vetro che timidamente sembra mostrare delle piccole filature

    Di Maurizio Carta
    Pubblicato il 28 Giu. 2019 alle 10:52 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 19:48

    Il prossimo primo ministro del Regno Unito, sia esso il Brexiteer Boris Johnson o l’allora Remainer Jeremy Hunt o addirittura, un terzo in caso di elezioni, erediterà una serie di complesse questioni politiche oltre che giuridiche quando diventerà l’inquilino al N°10 di Downing Street. Con la data di uscita Brexit che inizia stagliarsi all’orizzonte, ci sono delle questioni che metteranno a dura prova il prossimo Premier.

    La Brexit sarà il banco da prova per capire quanto Regno Unito sia davvero “Unito” e quanto il nuovo timoniere sia bravo nel salvaguardarne l’integrità territoriale. Perché il vetro, a dire il vero, presenta qualche filatura.

    Ma andiamo per ordine.

    Scozia: dovrebbe esserci un altro referendum sull’indipendenza?

    Dopo tre secoli di matrimonio, con l’unione dei rispettivi regni, la Brexit ha fatto riemergere, stavolta come non mai, un fiume carsico che forse da troppo tempo cercava di rivedere la luce. La questione scozzese appunto.

    Che futuro ha la Scozia nel Regno Unito non più “europeo”? La Scozia e i suoi oltre 5 milioni di abitanti ha una forte vocazione europeista. Nel referendum si schierò con oltre il 65% delle preferenze per il Remain.

    La prima ministra scozzese, Nicola Sturgeon, si è recentemente impegnata a tenere un secondo referendum sull’indipendenza prima del 2021. Tale mossa, con Londra che detiene il potere di veto in materia, lascia al futuro Premier due sole alternative.

    La prima è concedere alla Scozia il permesso per tenere un secondo referendum indipendentista. Con i sondaggi d’opinione che mostrano solo un modesto aumento del sostegno all’indipendenza dal 2014 e l’assenza di una chiara maggioranza indipendentista, ciò potrebbe dimostrarsi un rischio calcolato. Tuttavia, affidarsi alla fortuna per i referendum pare una mossa abbastanza azzardata. Per le testimonianze sul campo, chiedere a David Cameron riguardo la sua avventura nel 2016. La storia è oramai sin troppo nota.

    La seconda opzione è che il primo ministro britannico rifiuti l’autorizzazione per un secondo referendum, come ha fatto Theresa May nel marzo 2017. Legalmente, come detto, è nei suoi poteri il diniego, ma se si affida all’esercizio dell’autorità legale per mantenere l’integrità territoriale del Regno Unito, potrebbe danneggiare la fiducia degli scozzesi verso Londra, che potrebbero darne una risposta boomerang. La Catalogna insegna. I no tendono a rafforzare il dissenso.

    Irlanda del Nord: una cicatrice mai divenuta tale

    È la questione più difficile, quella che da sola ha fatto saltare tutto il calendario di uscita, la palla infuocata che deve gestire il prossimo Premier.

    Con l’UE che rimane coerente nella sua posizione di non rinegoziare l’accordo raggiunto con Theresa May e il backstop, il futuro primo ministro deve affrontare decisioni difficili nel trovare una soluzione praticabile alla questione dell’Irlanda del Nord.

    Il dilemma pone l’esecuzione materiale della Brexit contro l’integrità territoriale del Regno.

    Se sarà hard Brexit con uscita senza accordo, allora  il sostegno per l’unificazione irlandese potrebbe aumentare.

    Potrebbe. Il condizionale oltre la Manica è diventato imperativo di questi tempi.

    Viceversa, la precedenza sull’integrità territoriale del Regno Unito, con uno scenario più “soft” della Brexit  salvaguarderebbero il posto dell’Irlanda del Nord nel Regno Unito, ma metterebbero in discussione dei paletti insindacabili del partito conservatore  nella gestione del divorzio. Taglio netto, controllo totale di territorio e confini e nessuna interferenza esterna.

    Ma sarebbe troppo comodo. Botte piena e uomo ubriaco. No, non si può avere tutto. No, l’Unione Europea non è una fondazione filantropica.

    Galles, la nazione silenziosa che potrebbe smettere di esserlo

    Negli ultimi anni si è fatta sempre meno silenziosa (mettiamola così) quella parte piccolissima ma esistente di cittadini gallesi che non hanno le idee chiare sul futuro istituzionale. Non si tratta di movimenti indipendentisti puri, sarebbe una definizione troppo forte e non veritiera, ma un recente sondaggio su YouGov ha delineato un aumento significativo della percentuale di persone in Galles che si identificano come non catalogabili in maniera totale al sentirsi “british” e non esclusono (mettiamola così) di poter  considerare un giorno l’opzione dell’indipendenza del Galles.

    Tutto da verificare, tutto da approfondire il discorso del Galles, la più silente e fedele nazione delle tre che devono rendere conto a Londra.

    Ma nel conteggio totale delle questioni da risolvere per il prossimo Premier, merita comunque uno sguardo. Il Galles è stato tradizionalmente il più riluttante delle tre parti non inglesi del Regno Unito a perseguire un percorso distinto dal centro del Regno Unito. L’emergere di timidi segnali (da prendere con le pinze) che mostrano che questo stia cambiando manifesta comunque un seppur minimo grado di quella che è l’insoddisfazione nei confronti di Westminster.

    Inghilterra, la sorella maggiore che deve tenere unite le altre

    Sarà anche paradossale, ma anche l’Inghilterra, la più grande delle quattro che nei secoli ha incluso le altre tre, è quella che ha il compito, la responsabilità e il peso storico più grande di tutti.

    Non ha un sistema decentrato tutto suo. Il Nord-Irlanda ha un proprio parlamento, come il Galles e la Scozia, dopo il processo di decentramento avvenuto un ventennio fa. Più autonomia, quindi, alle periferie di quello che una volta era l’Impero. Ma la sorella maggiore un Parlamento tutto suo non ce l’ha. Lo divide con le altre tre. Westmintser è il Parlamento del Regno Unito, non dell’Inghilterra, che dell’assemblea ne è certamente l’azionista di controllo.

    Con la devolution, molto è cambiato nell’architettura interna del Regno Unito. Ciò ha causato l’apertura di un divario ideologico tra il Regno Unito e i governi decentrati nella loro interpretazione dell’appartenenza territoriale.

    Da un lato, il governo centrale mantiene la visione di contenitore e portatore dell’unità. Le amministrazioni decentrate, invece, hanno con il tempo sempre più iniziato a considerarlo come  uno stato multinazionale (ciò che è in realtà), in cui ciascuna delle quattro nazioni componenti vorrebbe una voce sempre più forte da fare sentire nella stanza dei bottoni che però sta sulle rive del Tamigi.

    La prova della indiscussa egemonia di Londra si è manifestata quando  la superiorità del governo centrale ha sin da subito messo ai margini della questione Brexit le nazioni minori, con Londra che non ha speso tanto tempo a consultare “le periferie”  sul da farsi nella faccenda “divorzio”.

    Poca considerazione per Cardiff, Belfast ed Edimburgo. Londra ha suonato quasi da sola nell’orchestra Brexit.

    La necessità di essere un federatore

    Se il prossimo primo ministro deve salvaguardare l’integrità territoriale del Regno Unito e riportarlo in un periodo di stabilità istituzionale, deve lavorare per trovare una posizione di compromesso nell’interpretazione delle dinamiche in evoluzione nel Regno Unito.

    Le sfide sono significative. La Brexit ha messo in evidenza vecchie linee di frattura nella tenuta territoriale, soffiando sul fuoco delle richieste periferiche ancora più marcate nei due decenni dal decentramento di fine anni 90′.

    Il vetro, quindi, ha delle piccole filature da non trascurare.

    Il compito del prossimo primo ministro è di trovare soluzioni a questi problemi in cui i loro predecessori hanno non si può dire abbiano fallito, ma quantomeno non brillato.

    La storia, sempre assetata di scrivere nuovi capitoli, attende.

    Anzi, la storia scalpita.

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