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    Breve guida alle rivelazioni più importanti dei Paradise Papers

    Fonte: www.icij.org

    La nuova inchiesta dei giornalisti dell'ICIJ fa luce su una delle più grandi fughe di notizie degli ultimi anni, i cui sviluppi potrebbero avere conseguenze maggiori di quelle di WikiLeaks e SwissLeaks

    Di Giuseppe Loris Ienco
    Pubblicato il 6 Nov. 2017 alle 17:18 Aggiornato il 12 Set. 2019 alle 00:38

    Paradise Papers è il nome dato dall’International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ) agli oltre 13 milioni di documenti, sottratti in buona parte da Appleby, un’importante società di consulenza offshore attiva nel settore bancario e finanziario, relativi agli investimenti effettuati da alcuni personaggi di primo piano del mondo della politica, dell’imprenditoria e dello spettacolo in paesi, i cosiddetti paradisi fiscali, che prevedono prelievi di tasse molto bassi o nulli sui depositi bancari.

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    Così come già successo con i Panama Papers, i leak sono stati resi pubblici dal quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung”, che ha lavorato all’inchiesta insieme ad altre testate collegate all’ICIJ come il “New York Times”, il francese “Le Monde”, il britannico “The Guardian” e la rivista italiana “l’Espresso”.

    “C’è un’industria globale che organizza gli spostamenti di denaro in tutto il mondo”, ha detto ad Al Jazeera Drew Sullivan, un giornalista dell’International Consortium of Investigative Journalists. “Questi soldi vengono trasferiti in paradisi fiscali per evadere le tasse, nascondere beni e rubare. Non è solo il crimine organizzato a ricorrere a questi metodi, ma anche le più grandi corporation del mondo”.

    Cosa c’è nei Paradise Papers

    I Paradise Papers rappresentano la seconda più grande fuga di notizie e dati sensibili dai tempi dell’inchiesta sui Panama Papers dell’anno scorso. Il caso appena scoppiato, quindi, potrebbe arrivare ben presto ad avere dimensioni maggiori di quelli relativi a WikiLeaks nel 2010 e SwissLeaks nel 2015.

    Le carte rivelano dettagli sugli affari in paradisi fiscali di centinaia di nomi noti e fanno luce su società legali, contabili e istituti finanziari attivi nel settore degli investimenti offshore.

    Più di 1.400 gigabyte per 13,4 milioni di file; di questi, quasi sette milioni arrivano dai database di Appleby e del fornitore di servizi per le aziende Estera, fino al 2016 parte della stessa Appleby. Altri sei milioni arrivano da 19 registri commerciali conservati per lo più nei paradisi fiscali nei Caraibi, mentre una parte minore proviene dagli archivi di Asiaciti Trust, una società internazionale di servizi fiduciari con sede a Singapore.

    Il ruolo di Appleby

    I Paradise Papers contengono informazioni che ricoprono un periodo di tempo molto lungo, che va dal 1950 al 2016. Buona parte dei dettagli ruota attorno al ruolo della società Appleby, uno dei leader nel settore della consulenza offshore, fondata alla fine dell’Ottocento e con sede nelle Bermuda.

    Tra i clienti di Appleby, come rivelano i dati raccolti dai 381 giornalisti di 67 paesi diversi che lavorano per l’ICIJ, più di 31mila sono ricollegabili agli Stati Uniti, 14mila al Regno Unito e 12mila alle Bermuda. Non solo persone coinvolte – tra le più conosciute la regina Elisabetta II d’Inghilterra, il ministro al Commercio statunitense Wilbur Ross, il co-fondatore di Microsoft Paul Allen e il frontman degli U2 Bono Vox – ma anche potenti multinazionali come Apple, Nike e Facebook.

    I leak illustrano gli innumerevoli modi in cui questi personaggi e compagnie riescono a evitare le tasse affidandosi a strutture artificiali. Se gestiti in maniera corretta, questi sotterfugi non rappresentano un reato; nella maggior parte dei casi, però, le cose vanno in maniera assai diversa. Soprattutto perché si ricorre a questi metodi per non pagare tasse dovute nei paesi in cui persone o società risiedono.

    Al momento, in base alle informazioni raccolte da “The Guardian”, Appleby ha negato qualsiasi ipotesi di illecito, sia da parte sua che da parte dei suoi clienti. Nonostante questo, i rappresentanti della società non hanno escluso la possibilità di errori e si sono detti disponibili a collaborare.

    Le connessioni tra il Cremlino e gli investimenti in Twitter e Facebook

    Le aziende controllate dal governo russo hanno investito silenziosamente in numerose start-up della Silicon Valley, incluse Facebook e Twitter, secondo quanto rivelato dai Paradise Papers.

    Gli investimenti sono stati incanalati attraverso la DST Global, la società di capitali di proprietà del miliardario russo Yuru Milner. VTB Bank, di proprietà della Russia, ha versato 191 milioni di dollari per una partecipazione del 5 per cento di Milner a Twitter nel 2013. La Gazprom, azienda controllata anch’essa dal Cremlino, ha collaborato con una società off-shore per finanziare la sua quota dell’8 per cento in Facebook nel 2012. Milner ha poi venduto quelle aziende.

    Il miliardario ha detto al New York Times che gli investimenti delle società statali russe erano puramente “un accordo commerciale e non avevano connessioni politiche”. Ma questi accordi saranno probabilmente visti in una luce differente dopo che il governo russo ha utilizzato gli account di Facebook e Twitter per influenzare il voto delle presidenziale statunitensi del 2016.

    Tutti i potenti coinvolti

    La Regina Elisabetta II d’Inghilterra. Tra i grandi nomi portati alla luce dalle indagini emerge quello della regina Elisabetta II d’Inghilterra. In particolare, l’inchiesta svela che 10 milioni di sterline dei fondi privati di Sua Maestà sono stati investiti in un fondo off-shore, alle isole Cayman, quello che viene identificato come un paradiso fiscale che garantisce l’anonimato oltre all’assenza di tasse, e alle Bermuda dal Ducato di Lancaster, insieme al Ducato di Cornovaglia dell’erede al trono.

    La Bbc riporta che il Ducato di Lancaster ha sostenuto di non essere coinvolto nelle decisioni su come vengono investiti i soldi della regina. Decisione prese dai fondi di investimento ai quali l’argent della sovrana sono conferiti. Ma non c’è alcuna prova che Sua Maestà abbia conoscenza di specifici investimenti fatti a suo nome.

    Sempre secondo la Bbc, le rivelazioni emerse domenica costituiscono solo una piccola parte di una mole molto più importante di informazioni che verranno diffuse noi prossimi giorni.

    Dai documenti spuntano però anche i nomi di personaggi come le star Madonna e Bono, o del generale Wesley Clark, già comandante supremo della Nato in Europa, e del co-fondatore della Microsoft, Paul Allen.

    Stephen Bronfman. Per il Canada fa scalpore il nome di Stephen Bronfman, consulente e amico stretto del primo ministro Justin Trudeau. Bronfman avrebbe trasferito diversi milioni di dollari in un trust delle isole Cayman. Le manovre, via offshore potrebbero aver evitato di pagare imposte in Canada e negli Stati Uniti.

    Wilbur Ross. A essere coinvolto dallo scandalo dei Paradise Papers c’è anche Wilbur Ross, ministro al Commercio di Trump, noto anche come l’uomo che avrebbe fatto affari con parenti e amici del presidente russo Vladimir Putin.

    Ross, in particolare, ha interessi nella Navigator Holdings – di cui è membro del consiglio di amministrazione dal 2012 – che guadagna milioni di dollari ogni anno trasportando petrolio e gas per il colosso energetico russo Sibur, che vede tra gli azionisti il genero del presidente russo, Kirill Shamalov, marito di Yekaterina Putin.

    Di Ross si conosce la società WL Ross & Co., specializzata nel prendere aziende sull’orlo del fallimento, risanarle e rivenderle una volta messe a posto. L’indagine dei Paradise Papers rivela come il rapporto tra Ross e la Navigator Holdigs sarebbe continuato attraverso società con sede alle isole Cayman.

    Le rivelazioni su Wilbur Ross rischiano di creare nuovi imbarazzi per la Casa Bianca e il presidente statunitense Trump, mettendo in luce nuovi collegamenti che uniscono la presidenza Trump al supporto russo.

    Non ci sono prove per affermare che Ross abbia violato formalmente alcuna legge ma politicamente il discorso è di opportunità sul continuare ad avere contatti con la Navigator Holding. Ross è una persona vicina a Donald Trump sin dagli anni Novanta, quando contribuì a salvarlo da una bancarotta per la costruzione di un casinò ad Atlantic City.

    A parte Ross, altri membri dell’amministrazione Trump sono stati trovati coinvolti in conti offshore. Tra loro spunta il nome del prioncipale consulente economico Gary Cohn, il segretario di Stato Rex Tillerson e la segretaria del tesoro Steven Mnuchin.

    George Soros. Nei ‘Paradise Papers’ spunta anche il nome del magnate e filantropo George Soros. Le strutture di private equity del re dei fondi d’investimento ricorrono a una rete di offshore per operare nel campo delle riassicurazioni (maxi-polizze per altre compagnie assicurative).

    La regina Noor di Giordania è la beneficiaria di due fidi in Jersey, una dipendenza della corona britannica in mare aperto, una delle quali detiene la sua tenuta britannica.

    Non solo politici

    Apple. Le email segrete dei Paradise Papers rivelano che Apple avrebbe creato una nuova struttura nell’isola del Canale della Manica per continuare a ridurre il carico fiscale dopo che l’Irlanda ha interrotto dal 2014 la possibilità di utilizzare il cosiddetto “double Irish”, l’architettura societaria che – secondo la Commissione Ue – ha consentito ad Apple di versare una percentuale di imposte pari allo 0,005 per cento.

    Bono Vox. Anche il frontman degli U2, Bono Vox, è coinvolto nel leak. Il cantante detiene quote di una società registrata a Malta che, stando alle carte, ha investito in un centro commerciale in Lituania.

    Paul Allen. Dai Paradise Papers è emerso che il co-fondatore di Microsoft, Paul Allen, ha investito attraverso società offshore in un mega-yacht e alcuni sottomarini.

    Wesley Clark. Dai documenti emerge che l’ex comandante supremo della Nato in Europa, Wesley Clark, già in corsa per le presidenziali del 2004, risulta amministratore di una società di gioco d’azzardo legale collegata a strutture offshore.

    Lewis Hamilton. Il fresco quattro volte campione iridato di Formula 1, Lewis Hamilton, sarebbe parte dell’inchiesta per l’acquisto nel 2013 del Bombardier CL635 Challenger rosso che il pilota usa per i suoi frequentissimi viaggi.

    Secondo quanto rivelato, il campione non avrebbe versato l’Iva di 3,7 milioni di euro sull’acquisto del jet del valore di 22 milioni di euro perché il mezzo risulterebbe proprietà di una società con sede alle Isole Vergini, che avrebbe noleggiato il jet a una società con sede sull’Isola di Man che, a sua volta, l’avrebbe affittato a un’ulteriore società alla quale si sarebbe rivolto Hamilton.

    I legali di Lewis hanno fatto sapere che l’operazione è stata condotta nella piena liceità dal momento che la formula della locazione, anziché l’acquisto, permette di ottenere un vantaggio fiscale. E, quindi, non ci sarebbe assolutamente niente di penalmente rilevante.

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