Il mese scorso, durante un programma della Bbc, è stato chiesto alla giornalista Ash Sarkar cosa pensasse del ventilato coinvolgimento di Tony Blair nella gestione del dopoguerra a Gaza. La sua risposta è stata caustica: «Suppongo sia perché Satana non era disponibile». Eppure la partecipazione dell’ex primo ministro britannico al governo futuro della Striscia sembra ormai cosa fatta.
Il suo nome compare – nero su bianco – al punto numero 9 del piano di pace varato dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump: Blair farà parte di quel «Board of Peace» chiamato a supervisionare il comitato tecnocratico a cui sarà affidata la ricostruzione di Gaza. Il board, presieduto dallo stesso Trump, sarà composto da una serie di capi di stato e di governo, ma per ora l’unica personalità certa del posto è, appunto, l’ex premier laburista, oggi 72enne, in carica a Downing Street dal 1997 al 2007.
Il personaggio è visto come il fumo negli occhi in Medio Oriente. È ancora fresco il ricordo della guerra in Iraq del 2003: oltre 100mila civili morti in un conflitto scatenato sulla base di una bugia. Blair all’epoca era tra i più ferventi sostenitori della politica estera interventista portata avanti dagli Usa di George W. Bush. E si distinse in prima fila nel caldeggiare l’invasione del Paese che era guidato da Saddam Hussein. Peccato che il pretesto per scatenare le fiamme – lo sviluppo da parte di Baghdad di armi di distruzioni di massa – fosse clamorosamente falso, come si scoprì in seguito.
E dire che Blair era stato per anni il simbolo della nuova sinistra mondiale: rampante e aperta al libero mercato. La chiamarono «terza via blairiana»: un’allucinazione di cui il campo progressista ancora oggi non si è del tutto liberato.
Dal 2007 al 2015, l’ex premier ha ricoperto l’incarico di inviato per la pace nel Medio Oriente su mandato di Onu, Unione europea, Usa e Russia. Chiusa la carriera politica, ha iniziato una remunerativa attività come consulente per conto di colossi finanziari del calibro di Jp Morgan e Zurich Financial. Nel 2016 ha fondato un think tank, il Tony Blair Institute for Global Change, che ha affiancato negli anni i regimi di Arabia Saudita e Azerbaijan. Lo stesso ente è stato coinvolto da Trump nelle discussioni sul futuro di Gaza.
Assicurarsi i favori di Blair potrebbe dunque rivelarsi fondamentale per le aziende pronte a fare affari con la ricostruzione. Il mare davanti alla Striscia, ad esempio, fa gola alle compagnie degli idrocarburi, essendo ricco di piccoli giacimenti di gas. Ai tempi in cui era primo ministro, Blair aiutò la British Petroleum (Bp) a chiudere importanti accordi con la Libia di Gheddafi e la Russia di Putin. La multinazionale fu addirittura ribattezzata «Blair Petroleum». Chissà che ora non ci scappi una concessione anche a Gaza.
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