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    Ecco perché l’Italia sta perdendo la guerra in Ucraina

    Credit: Giulio Piscitelli
    Di Andrea Lanzetta
    Pubblicato il 16 Apr. 2022 alle 15:03

    L’analista geopolitico Federico Petroni spiega a TPI gli effetti della crisi
    È finita la Pax Americana in Europa, cosa cambia per l’Italia?
    «Non abbiamo più la certezza di una sicurezza garantita in eterno: la guerra è ormai una possibilità concreta. A differenza dei conflitti balcanici, quella in Ucraina è una guerra sistemica, combattuta per cambiare le regole che governano il mondo».
    Quali effetti subiamo?
    «In questa guerra indiretta con la Russia, gli Usa vogliono slegare l’Europa da Mosca; così aumenta la nostra dipendenza da Washington. L’America sta delimitando sempre più nettamente la propria sfera di influenza, cioè l’Occidente strategico (Europa più Giappone, Corea del Sud, Australia). Noi restiamo comunque l’anello debole dello schieramento americano in Europa meridionale e subiamo le pressioni di Russia e Cina, che cercano di allargare le divisioni occidentali».
    Avremo un ruolo nel nuovo ordine internazionale?
    «Il conflitto non produrrà un nuovo ordine globale ma un mondo più disordinato. L’Italia potrebbe svolgere un ruolo di satellite attivo nella sfera di influenza americana per perseguire i propri interessi, a volte in competizione con altri Stati europei».
    Come tutelare i nostri interessi se la Nato guarda altrove?
    «La guerra ha declassato il Mediterraneo, che resta un teatro importante seppur secondario per l’Alleanza. Da qui transitano rotte commerciali e militari fondamentali per gli interessi degli Usa ma Washington non interverrà più per toglierci le castagne dal fuoco. Lo sguardo della Nato a est è una brutta notizia ma anche un’opportunità per l’Italia.
    Dobbiamo cavarcela da soli?
    «Dobbiamo assumerci le nostre responsabilità, definire i nostri interessi e trovare il modo per perseguirli anche assieme a potenze vicine rilevanti. Dobbiamo imparare a superare le nostre storiche rivalità con la Francia in Nord Africa e magari trovare un’intesa con la Turchia. La cogestione del Mediterraneo deve contribuire ad aprire nuove rotte per l’approvvigionamento energetico, come avvenuto con l’Algeria, e impedire l’aumento dell’instabilità nella sponda sud».
    Come affrontare la crisi?
    «Fra le altre cose, con uno Stato forte. È necessario dotarsi di strutture centralizzate, di cui dal dopo-guerra a oggi l’Italia scarseggia, per affrontare le conseguenze del conflitto: la transizione energetica, il riarmo e le crisi alimentari in Nord Africa e Medio Oriente».
    Il sistema politico è attrezzato?
    «Dal dopo-guerra a oggi i partiti politici hanno cercato di compensare il deficit di Stato. Ha funzionato durante la Guerra fredda e finché non sono sorte nuove competizioni internazionali. Oggi invece i partiti non bastano più, anche perché si sono dissolti. Servono strutture burocratiche statali, sempre sottoposte al controllo democratico, che gestiscano in maniera non partigiana le questioni di maggior interesse nazionale. In altri Paesi con Stati più efficienti, il corpo diplomatico, le forze armate, il Tesoro godono di maggiore legittimazione».
    Insomma saranno i tecnici come Mario Draghi a salvarci?
    «Bisogna separare nettamente i compiti e lasciare i ruoli politici alla politica e le questioni tecnico-amministrative agli esperti. Ma su Draghi dissento: non è un tecnico. È un politico di primissima fascia, che ha occupato delle cariche eminentemente politiche».

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