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    “L’Italia ci fa fare il lavoro sporco perché non vuole gli africani”: parla la Guardia Costiera libica

    L’equipaggio della Guardia costiera di Tripoli racconta in un’intervista a La Stampa la dinamica dell’intervento effettuato lunedì 16 luglio per soccorrere il barcone alla deriva e fotografato da Open Arms

    Di Lara Tomasetta
    Pubblicato il 20 Lug. 2018 alle 13:19 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 09:17

    “Non avremmo avuto alcuna ragione di abbandonare in acqua delle persone vive: anche se si fossero rifiutate di salire a bordo le avremmo tirare su a forza, lo abbiamo fatto con gli uomini e lo avremmo fatto facilmente con le donne. È una bugia, è propaganda contro di noi. Non c’era nessuno oltre i due morti che, per altro, al nostro arrivo erano già morti. Quello di cui ci accusano è privo di senso”.

    L’equipaggio della Guardia costiera di Tripoli racconta in un’intervista a La Stampa, la dinamica dell’intervento effettuato lunedì 16 luglio per soccorrere il barcone alla deriva e fotografato da Open Arms. La versione libica dell’ultimo scontro tra Roma, Tripoli e l’Ong Open Arms, è di Tofag Scare, colonnello della Guardia Costiera di Misurata che lavora in coordinamento con i colleghi della capitale.

    Il 17 luglio 2018, a circa 80 miglia dalla costa della Libia, sono stati trovati i resti di un gommone distrutto ed è stata soccorsa una donna, Josefa, che si è salvata dopo essere rimasta ore aggrappata a una tavola.

    I soccorritori dell’ong Proactiva Open Arms, intervenuta sul posto, hanno recuperato anche i cadaveri di una donna e di un bambino (qui le foto delle operazioni di soccorso).

    Il 19 luglio, l’ong ha annunciato sul proprio profilo Twitter che le due navi Open Arms e Astral, che hanno soccorso la donna, sbarcheranno sabato mattina a Palma di Maiorca.

    Contrariamente a quanto affermano da Oper Arms, gli uomini di Tripoli sostengono di non aver abbandonato nessun migrante in mare, men che meno Josefa, che aveva raccontato alla giornalista Annalisa Camilli di Internazionale di non ricordare il momento del naufragio ma di essere stata picchiata dai libici al pari dei suoi compagni di cui non sa più nulla.

    “Non c’era, non avremmo abbandonato nessuno vivo in acqua”, affermano i libici.

    Il colonnello Scare parla anche di due corpi in mare, cadaveri che, si apprende, “secondo la legge libica vanno identificati prima di essere sepolti o rimandati a casa e dunque in questi casi vengono lasciati al mare”.

    “Abbiamo lasciato in mare solo i due corpi senza vita di una donna e un bambino dopo aver provato invano a rianimarli: erano morti e portarli a terra non aveva alcun senso, ma oltre loro non c’era nessun altro in acqua”.

    Ma anche su questa versione restano dei dubbi. Di chi sono i cadaveri di cui parlano i libici? Le fotografie diffuse dalla Open Arms mostrano chiaramente che i due corpi senza vita si trovano sullo stesso relitto su cui è rimasta a galla Josefa.

    Sempre nell’intervista rilasciata a La Stampa, traspare anche una certa insofferenza nel dover gestire, stando alle loro affermazioni, una situazione ormai al collasso: “L’Italia ci fa fare il lavoro sporco perché non vuole gli africani, ma anche noi non siamo contenti di prenderli qui, le nostre città sono piene fino a scoppiare, i centri per loro non bastano più e sono diventati bombe a orologeria”, racconta un membro della Guardia Costiera libica.

    “Certe volte con le motovedette ci spingiamo fin dentro le acque internazionali, dove sarebbe illegale, e io dico che sbagliamo. Lo facciamo perché abbiamo un accordo e l’Italia ci ha promesso delle cose, ma se non arriva nulla ci stiamo solo caricando di problemi e di cattiva reputazione”.

    “Siete voi a chiederci di bloccare gli africani che vogliono venire in Europa, loro di certo non sognano la Libia”.

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