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    Morire in Afghanistan

    Barbara De Anna è morta, a quasi un mese dall'attentato talebano alla sede dell'Oim in cui lavorava

    Di Veronica Crocitti
    Pubblicato il 21 Giu. 2013 alle 14:27 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:00

    Quarant’anni, fiorentina, funzionaria dell’Oim, angelo silenzioso dei migranti. Barbara De Anna viveva in Afghanistan dal 2010, da più di due anni lavorava in quella terra devastata da guerra e sofferenza. La sua era una missione di pace, la missione di quell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni che da ben 62 anni protegge e sostiene i migranti di tutto il mondo.

    Barbara De Anna era un’italiana, una donna ma, ancor più, era una delle migliaia di persone che decidono di dedicare la propria vita alla salvaguardia degli altri, dei più deboli, degli ultimi. La lunga e formativa esperienza all’Onu aveva segnato il suo futuro. Poco dopo aveva deciso di abbracciare la missione dell’Oim, tra i 460 uffici dislocati in più di 100 Paesi, tra i 27 progetti operativi nelle 30 provincie afghane.

    Nel 2010 il suo destino l’aveva condotta a Herat e l’anno successivo a Kabul, nella capitale di quello Stato che da decenni sembra conoscere solo morte, devastazione e dolore. Una guerra, quella dell’Afghanistan, che sembra durare da sempre, ormai assuefatta nell’immaginario comune, assodata, stabile, quasi se ne fosse dimenticata addirittura l’origine. Una guerra che continua a portare fame e mietere vittime. Civili, bambini, donne, uomini, Barbara.

    Il 24 maggio 2013 fu il giorno dell’attacco. Una granata lanciata dai talebani nella sede dell’Oim, un’esplosione, l’ennesimo colpo contro gli aiuti umanitari. Barbara si trovava lì a svolgere con passione il suo lavoro, come sempre, quando l’esplosione la colpì in tutta la sua violenza. La situazione era subito apparsa gravissima. Ustioni di secondo grado nella quasi totalità del corpo, la corsa all’ospedale, le cure di Emergency, il trasferimento in Germania, l’agonia di quasi due mesi.

    Oggi, la drammatica notizia: Barbara non ce l’ha fatta.

    Quel giorno, quel 24 maggio, i talebani avevano rivendicato l’attentato attraverso il portavoce Zabiullah Mujahid, giustificandolo: la sede dell’Oim, in realtà, era solo la sede di “membri della Cia che fanno formazione ai servizi segreti afghani”. Ma l’Oim non è la Cia, l’Oim non è un’organizzazione governativa e Barbara non era un agente. Era solo uno dei 22 operatori umanitari che da 23 anni regalano speranza, aiuto e protezione ai migliaia di sfollati afghani, a quelle migliaia di civili che sono cresciuti tra la guerra, ma la guerra la rifiutano.

    Adesso l’Italia piange la sua ennesima vittima, l’ennesimo angelo terreno che è appena volato in cielo, l’ennesimo dazio che il nostro Paese paga per una guerra infinita, non tollerata, lacerante.

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