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    Le richieste della Polinesia francese

    Le mai sopite aspirazioni indipendentiste dei cittadini polinesiani sono sopraffatte dai gravi problemi economici dell'arcipelago

    Di Caterina Grignani
    Pubblicato il 5 Dic. 2012 alle 06:45 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:04

    Le richieste della Polinesia francese

    Dista circa 16 mila chilometri da Parigi ma negli ultimi mesi è tornata al centro delle tante preoccupazioni dell’esecutivo di Hollande. L’ex colonia, nota come paradiso terrestre di mare e sole, attraversa una grave crisi economica e politica: 13 governi si sono succeduti alla guida dell’arcipelago dal 2004 e il tasso di disoccupazione oscilla tra il 20 e il 30 per cento. La Polinesia francese è una ‘collectivité d’outre mer’, un territorio al quale sono state concesse, nel tempo, crescenti autonomie. Ma è stata in particolare la tragica parentesi degli esperimenti nucleari, conclusasi nel 1996, a far crescere l’idea di indipendenza, sostenuta dal presidente Oscar Temaru e rafforzatasi intorno al suo partito, il Tavini Huiraatira.

    La scena politica polinesiana si è andata delineando non tanto su contrapposizioni di classe o ideologiche, quanto sulla posizione nei confronti della Francia. Gaston Flosse, primo presidente rimasto in carica quasi ininterrottamente dal 1984 al 2004, leader del partito autonomista Tahoeraa Huiraatira, ha tenuto una linea di pacifico dialogo e un rapporto amichevole con l’allora presidente Jacques Chirac. Oscar Temaru, erede di lotte indipendentiste ben più antiche, guadagna stabilmente la presidenza nel 2011, dopo anni di crisi governative e alleanze traballanti. Il leader raccoglie consensi soprattutto tra gli abitanti delle isole, delusi dalle mancate promesse occupazionali del Centre d’Expérimentation du Pacifique, e dichiara di voler mettere fine alla storia colonialista del Paese.

    Sebbene oggi il presidente Temaru abbia mitigato le sue posizioni, intende iscrivere la Polinesia nella lista Onu dei Paesi da decolonizzare. La Chiesa protestante lo sostiene ma l’opposizione degli autonomisti ha vanificato il progetto. Durante la presidenza Sarkozy il dialogo è stato difficile perché il leader dell’Ump definiva ‘demagogiche’ le aspirazioni indipendentiste. François Hollande è più disponibile, alla fine di ottobre ha dato il via libera a un fondo di 34 milioni di euro in favore della Polinesia, bloccato dal precedente esecutivo, e ha partecipato alla ‘Journée Outre-Mer’ organizzata dai sindaci francesi. È la prima volta nella storia che un presidente francese partecipa a tale evento. Ma la società polinesiana si spacca tra fedeltà alla Repubblica e indipendenza. Ad agosto ‘La Depeche de Tahiti’ ha pubblicato un sondaggio condotto da Tns Sofres che delude le aspettative degli indipendentisti. Il 64,5 per cento degli intervistati voterebbe contro in caso di referendum. Le ragioni di un simile risultato sono pragmatiche: l’economia polinesiana è debole, la sproporzione tra beni esportati e beni importati è enorme, le risorse principali sono la pesca, il commercio di perle e il turismo. Quest’ultimo sta subendo una brusca diminuzione, Air France vuole tagliare voli e personale dell’aeroporto di Tahiti.

    La Polinesia sopravvive con gli aiuti finanziari francesi. Un ex ministro delle Finanze polinesiano, Patrick Peaucellier, ha detto che la colonizzazione ha portato prima un’economia di ‘comptoir’ e poi, con gli esperimenti nucleari, un’economia di ‘garnison’. Si tratta di due economie artificiali, una ‘da banco’ limitata a beni poco redditizi, e l’altra ‘di guarnigione’, quindi sottomessa e funzionale agli interessi militari. La prospettiva economica dell’indipendenza, legata ad aiuti di altri Paesi e della comunità internazionale, alimenta la paura di una maggior povertà. I polinesiani sono ‘cittadini francesi a metà’, non godono dello Stato sociale e dei sussidi per la disoccupazione come i loro concittadini del Vecchio Continente. Se fino a 20 anni fa il concetto di ‘fenua’, terra natale, era molto radicato e spingeva la popolazione a una vita tradizionale e semplice, oggi i giovani sono più istruiti e attirati dal modello consumistico occidentale. Tutto lascia pensare che presto o tardi reclameranno i loro diritti.

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