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    Le discriminazioni delle donne lavoratrici in Giappone

    Nonostante il governo abbia stanziato 1,4 milioni per le aziende disposte ad aumentare il numero di dipendenti femminili, non ci sono state adesioni al piano

    Di TPI
    Pubblicato il 1 Ott. 2015 alle 11:59 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 16:30

    Si tratta della terza Potenza mondiale, ma ha una delle percentuali più basse di donne lavoratrici, se messa in paragone con i Paesi più sviluppati.

    Stiamo parlando del Giappone, che nonostante la sua economia solida e competitiva sul mercato internazionale, sembra non aver trovato all’interno del proprio stesso Paese un modo per superare i retaggi tradizionali che vedono la figura della donna come collegata strettamente e indissolubilmente alla vita domestica e all’istruzione dei figli.

    L’ultima conferma a riguardo è arrivata qualche giorno fa, quando il primo ministro Shinzo Abe ha ammesso pubblicamente che il piano proposto alle aziende dal governo per incentivare l’assunzione di donne nei ruoli chiave all’interno delle compagnie, non ha avuto affatto seguito.

    Nell’aprile del 2014, il ministero del Lavoro aveva lanciato infatti un programma che garantiva un finanziamento pubblico alle imprese disposte a promuovere o assumere nuovo personale femminile in posizioni direzionali. Diciassette mesi dopo, il governo giapponese non aveva ricevuto ancora nessuna adesione.

    Lo stato aveva stanziato per questo progetto 1,4 milioni di dollari da dividere approssimativamente per le circa 400 aziende che ne avrebbero fatto richiesta e avessero dimostrato di rispettare i canoni imposti dal ministero.

    Oltre alle assunzioni in posizioni chiave, infatti, la compagnia che avesse voluto usufruire dei finanziamenti sul lavoro femminile avrebbe dovuto offrire ai propri dipendenti un corso preparatorio di almeno 30 ore sull’uguaglianza di genere nel mondo del lavoro e garantire al governo di raggiungere gli obiettivi fissati dal programma entro sei mesi dall’inizio dello stesso.

    Le aziende hanno sottolineato come i requisiti fossero difficili da raggiungere e lo stesso primo ministro ha valutato negativamente questo aspetto, votando infine per una modifica dei criteri di selezione e per un aumento del budget per il programma, che da ottobre rispetterà altri criteri.

    Rimane un dato di fatto, a prescindere dalle problematiche tecniche della proposta governativa, la discriminazione costante della donna sul lavoro, specialmente quando resta incinta.

    Una donna che aspetta un figlio e viene trattata con disparità da colleghi e superiori, subisce quello che in Giappone viene chiamato matahara.

    Nel Paese, il 70 per cento delle donne gravide smette di lavorare per un decennio o più, scegliendo spesso di diventare casalinga in via definitiva, per crescere i figli ed occuparsi dei lavori di casa, visto che il Giappone è, tra i Paesi non in via di sviluppo, quello che si attesta con una più bassa collaborazione nelle faccende domestiche da parte maschile.

    Le discriminazioni che una donna giapponese incinta deve subire sul lavoro sono le più svariate. Spesso i superiori si rifiutano di alleggerire i lavori fisicamente pesanti o di cambiare provvisoriamente la mansione della dipendente. 

    Quando essa torna al lavoro, poi, non viene trattata più alla stessa maniera e sono molte le testimonianze di donne che hanno denunciato di aver ricevuto insulti e minacce in quanto, essendo al lavoro, non si stavano comportando da brave madri.

    A molte di esse, dopo la maternità, non viene più concesso di seguire corsi di aggiornamento o di partecipare a viaggi di lavoro e non sono rari i casi in cui, dopo che la donna si lamenta della nuova condizione, le viene chiesto di fare una scelta tra lavoro e famiglia.

    Dopo il parto, spesso vengono colpevolizzate dai colleghi, che fanno pesare loro il fatto di essersi dovuti occupare anche delle loro mansioni, durante il periodo in cui erano a casa per maternità, aumentando lo stress in ufficio e minando il lavoro di gruppo in ufficio.

    Per risolvere una situazione considerata insostenibile per un Paese sviluppato, si è arrivati a pensare anche a introdurre sanzioni per le aziende con un numero di dipendenti donne inferiore a quello minimo stabilito dalla legge. 

    Masamichi Adachi, ex dipendente della Banca del Giappone, ha dichiarato in un’intervista al broadcast economico Bloomberg che a suo parere le aziende sarebbero più inclini ad assumere donne se rischiassero multe, piuttosto che per la promessa di sussidi.

    Nel febbraio del 2014 Yoichi Masuzoe, in procinto di essere eletto sindaco di Tokyo, aveva definito le donne “inadatte” a ricoprire cariche di governo dal momento che hanno il ciclo mestruale.

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