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    Kenya, una pioggia di proiettili

    Gli scontri tribali, le elezioni, il terrorismo. Fare il poliziotto in Kenya è peggio che essere un soldato in Afghanistan

    Di Ernesto Clausi
    Pubblicato il 12 Dic. 2012 alle 08:17 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 23:02

    Kenya una pioggia di proiettili

    La famiglia di Thomas Lengeriai non sarà risarcita. Lengeriai era tra i 42 poliziotti uccisi il mese scorso in Kenya in quello che è stato definito come il massacro di Baragoi. Il più devastante e sanguinoso attacco mai sferrato contro le forze di polizia keniote. Il corpo di Lengeriai, rimasto nella foresta per diversi giorni, è stato divorato dalle iene, e non potrà essere presentato come prova del suo decesso. Le usanze locali impongono che il corpo di un ‘combattente’ ucciso debba essere lasciato sul campo di battaglia. “Lo abbiamo ritrovato dopo una settimana dall’agguato” racconta la moglie Maiwan, “così mi è stato detto che non era possibile fare granché”.

    Il compito di Thomas era quello di recuperare una partita di bestiame rubato, nell’ambito di un’infinita lotta tra tribù, i Samburu e i Turkana. Quasi un poliziotto su due non ha fatto ritorno da quella funesta operazione nella Suguta Valley. Anche Eric Mutua lascia la moglie e una figlia di due anni. “Era l’unico in famiglia a lavorare”, dice Mike, uno dei parenti, e chiede al governo di fare chiarezza sulla vicenda. Mentre i politici locali, nel tentativo di guadagnare consensi in vista delle prossime elezioni, fomentano le due comunità complicando il già difficile processo di riconciliazione. Uno dei sopravvissuti, David Mwiti, ha alle spalle numerose missioni, ma dal suo letto del Kenyatta Hospital di Nairobi racconta che “questa è stata la peggiore in assoluto a cui abbia mai partecipato. Una pioggia di proiettili ci è arrivata addosso da ogni direzione, sono stato colpito due volte alla gamba sinistra e mi sono nascosto dietro un cespuglio. Sono rimasto due giorni nella giungla in attesa dei soccorsi”. Come lui anche Abdillahi Nur, 21 anni, è sopravvissuto per tre giorni con acqua e biscotti.

    Oggi la valle è semideserta. Gli abitanti di Baragoi sono fuggiti, in seguito alla decisione del governo di schierare l’esercito per assicurare alla giustizia i colpevoli del massacro. “La gente ha paura quando vede arrivare i militari”, afferma un cittadino. C’è il timore di rappresaglie e di reazioni indiscriminate. E infatti da giorni l’area è una ‘no go zone’, e le notizie arrivano col contagocce. Il banditismo diffuso e gli scontri tribali hanno provocato negli ultimi mesi un’escalation di violenza. Il Kenya oggi affronta grandi sfide, e il massacro di Baragoi è l’espressione più eclatante del malessere che vive il Paese. A marzo ci saranno le elezioni presidenziali e legislative. Il timore che gli scontri post-elettorali del 2007 possano ripetersi è forte. Inoltre, altre delicate questioni si intrecciano con l’appuntamento elettorale.

    L’operazione militare Linda Nchi (‘Proteggere la nazione’) della Kenyan Defence Force in Somalia, volta a sradicare il movimento terrorista somalo al-Shabaab dalla Juba Valley, sta provocando ritorsioni da parte degli islamisti. Attacchi a chiese cristiane e attentati si verificano con cadenza settimanale, provocando violente manifestazioni contro la comunità somala del quartiere Eastleigh, la ‘Little Mogadishu’ di Nairobi (leggi il fotoreportage). Su Twitter il portavoce di al-Shabaab ha minacciato nuovi e sanguinosi attacchi contro siti turistici e obiettivi sensibili. Altra spinosa questione è legata al processo che inizierà, subito dopo le elezioni, presso la Corte Penale Internazionale. Due candidati alla Presidenza della Repubblica, Kenyatta e Ruto, sono accusati, insieme all’ex direttore del Civil Service e a un noto conduttore radiofonico, di essere i mandanti ideologici degli scontri post-elettorali di cinque anni fa. Non è improbabile che uno tra Kenyatta e Ruto sia il prossimo presidente, e ciò potrebbe avere conseguenze pesanti sul piano delle relazioni internazionali per il Kenya, come già si è verificato per il Sudan con il suo presidente al-Bashir.

    E poi i fermenti separatisti sulla costa: ‘pwani si Kenya’ (‘La costa non fa parte del Kenya’), si legge sul pontile di Malindi. Movimenti sociali e politici lamentano l’emarginazione e la scarsa attenzione del governo centrale verso la popolazione costiera. Su tutti il Mombasa Republican Council, il cui obiettivo finale è la secessione, e che invita a boicottare le prossime elezioni. È un pericoloso mix, pronto ad esplodere. Intanto il Kenya rende il giusto tributo ai suoi uomini, membri di un corpo di polizia controverso, a causa dell’alto grado di corruzione presente nelle istituzioni pubbliche. “Fare il poliziotto è sempre stato un privilegio in Kenya”, afferma un keniota nella stazione di Mombasa, dove domenica scorsa è stata lanciata una granata, “ma oggi è più pericoloso che essere un soldato in Afghanistan”.

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