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    L’esercito iracheno ha ripreso Kirkuk dalle forze curde

    Credit: Afp

    I militari di Bagdad hanno riconquistato la città e diversi siti strategici dell'area contesa con il governo regionale autonomo curdo. Si sono verificati alcuni scontri tra i soldati iracheni e i peshmerga, che hanno causato almeno 20 vittime

    Di Andrea Lanzetta
    Pubblicato il 16 Ott. 2017 alle 09:37 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 19:54

    Lunedì 16 ottobre, le forze armate irachene hanno catturato diverse posizioni strategiche a sud e all’interno della città di Kirkuk, controllate fino ad allora dai militari fedeli al governo regionale curdo. Brevi scontri tra i due eserciti hanno causato almeno 20 morti, mentre scoppia la polemica tra le fazioni curde accordatesi con Bagdad e quelle favorevoli all’indipendenza, con reciproche accuse di tradimento.

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    A Kirkuk, come in tutto il Kurdistan iracheno, il 25 settembre si è tenuto il referendum per l’indipendenza della regione curda da Bagdad, una mossa non riconosciuta dalle autorità del governo centrale né dagli stati vicini.

    Il territorio della città era conteso da mesi tra le autorità federali irachene e il governo di Erbil, capitale del Kurdistan iracheno. Per questo, domenica 15 ottobre, Bagdad aveva deciso di lanciare un’operazione per riconquistare tutta la zona.

    L’avanzata sulla città

    Poco prima dell’alba del 16 ottobre, l’esercito iracheno ha iniziato la propria avanzata su Kirkuk, in particolare vi hanno preso parte diverse unità dell’antiterrorismo, delle forze speciali e della Nona divisione corazzata.

    Insieme alle forze armate regolari erano presenti anche le milizie sciite filo-governative, come per esempio le unità Al-Badr e Kataib Imam Ali, legate all’Iran.

    Gli scontri tra le due fazioni non sono durati a lungo. Le vittime sono almeno 20 tra i peshmerga e si hanno notizie di quattro mezzi blindati dell’esercito iracheno colpiti dalle forze curde.

    Secondo il canale televisivo curdo-iracheno Rudaw, almeno dieci peshmerga sono stati decapitati da miliziani appartenenti alle unità irregolari sciite.

    Durante la mattina, le forze irachene hanno conquistato la base militare K1, l’intero distretto industriale, l’aeroporto e diversi pozzi petroliferi e giacimenti di gas, insieme agli impianti di raffinazione e a un impianto elettrico.

    Gli impianti, i giacimenti e le infrastrutture energetiche sono il vero motivo del contendere di questa battaglia. I pozzi dell’area di Kirkuk producono ancora 600mila barili di petrolio al giorno.

    Nel pomeriggio le forze irachene hanno completato la riconquista della città, occupando il palazzo del governatore e il centro di Kirkuk.

    Il palazzo è stato raggiunto da un convoglio di decine di mezzi militari appartenenti a un’unità militare di elite delle forze armate di Bagdad, addestrata dagli Stati Uniti.

    In tutti gli edifici pubblici, la bandiera curda è stata così sostituita da quella del governo di Bagdad. Nonostante gli scontri iniziali, il ritiro delle truppe peshmerga è avvenuto con modalità ordinate e in modo sostanzialmente pacifico.

    Le reazioni e le conseguenze

    Le reazioni nel mondo curdo-iracheno però non si sono fatte attendere. Alcuni leader di Erbil hanno accusato gli Stati Uniti di non aver aiutato i curdi nonostante il loro forte impegno nella campagna contro l’Isis.

    La coalizione internazionale guidata da Washington infatti si è limitata a invitare le parti a evitare gli scontri e a concentrarsi sulla lotta al terrorismo.

    La portavoce del Pentagono Laura Seal ha confermato la volontà di Washington di sostenere un Iraq “unito”.

    Inoltre, un portavoce del comando della coalizione ha definito gli scontri avvenuti a Kirkuk tra l’esercito iracheno e le forze del governo regionale curdo frutto di un’“incomprensione” e ha affermato che non sono stati “deliberati”.

    Nonostante le operazioni militari, la produzione di gas e petrolio è rimasta stabile. “Siamo d’accordo con alcuni leader curdi che gli impianti petroliferi e di estrazione di gas restino fuori dal conflitto”, aveva detto un portavoce del ministero del Petrolio iracheno all’agenzia di stampa Reuters.

    Proprio questo tipo di accordi ha fatto infuriare una parte dei curdi-iracheni. In particolare, gli uomini fedeli al presidente del governo di Erbil, Masoud Barzani, hanno accusato un’altra fazione curda di “tradimento”, oltre a minacciare il governo di Bagdad di ritorsioni per quanto accaduto a Kirkuk.

    Le forze di sicurezza riconducibili al governo curdo iracheno hanno infatti detto che le autorità irachene pagheranno un “caro prezzo” per aver lanciato l’attacco sulla città. I peshmerga, attraverso una dichiarazione pubblicata dalle forze militari curdo-irachene, hanno accusato di “tradimento” i curdi che hanno assistito il governo federale nell’operazione.

    Il partito del presidente Barzani, il Partito democratico curdo (Pdk), ha accusato il primo ministro iracheno Al-Abadi, le milizie paramilitari sciite e l’Iran di aver messo in atto una vera e propria “dichiarazione di guerra al Kurdistan”.

    Gli uomini fedeli a Barzani hanno poi indicato i dirigenti dell’Unione patriottica del Kurdistan (Puk), legata al clan dell’ex presidente iracheno Jalal Talabani e guidata al figlio Pavel Talabani, come “complici del tradimento nei confronti del popolo curdo”.

    I combattenti curdi fedeli al Puk hanno infatti disertato in gran parte gli scontri con le forze regolari irachene, abbandonando i propri posti di controllo e ritirandosi di fronte all’avanzata dell’esercito di Bagdad.

    Il Kurdistan iracheno, che appare unito, è di fatto diviso in due sottogoverni, uno con sede a Erbil, guidato dal partito di Barzani, e uno con sede a Sulaymaniyah, guidato dal clan Talabani, vicino alle istanze politiche iraniane.

    Soltanto il 30 per cento delle truppe peshmerga, i militari curdo-iracheni, portano al braccio le insegne del governo regionale. Tutti gli altri si identificano ancora con i simboli di uno dei due partiti. Nonostante il governo unico di Erbil, oggi esistono ancora due Kurdistan iracheni, ciascuno con i suoi militari e con la sua linea di comando.

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