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    Che fine farà l’Iraq?

    Dopo 15 anni dall'invasione statunitense, il paese è nel caos e lo stato non esiste. Ha ancora un futuro il popolo iracheno?

    Di Andrea Lanzetta
    Pubblicato il 28 Ago. 2017 alle 13:06 Aggiornato il 10 Gen. 2020 alle 20:14

    Il 9 luglio il premier iracheno Haydar al-Abadi ha annunciato la liberazione di Mosul dai miliziani del sedicente Stato Islamico. Ma la riconquista della città irachena, dopo nove mesi di combattimenti, non è ancora conclusa.

    I combattenti estremisti continuano a resistere nei quartieri della città vecchia e gli stessi militari di Baghdad non si fidano dei civili salvati tra le macerie.

    La situazione della città è emblematica delle condizioni dell’intero paese: non esiste un vero piano per affrontare la fase successiva della battaglia, così come non esiste una strategia per gestire la ricostruzione della nazione.

    Come Mosul, anche l’Iraq presenta un futuro incerto, conteso tra le diverse fazioni che ne controllano pezzi di territorio. Inoltre, nonostante le sconfitte militari e la perdita delle sue principali città, l’Isis mantiene ancora il potere in una larga fascia di territorio che lungo il fiume Eufrate collega Siria e Iraq.

    Il governo di Baghdad sta riconquistando terreno grazie all’aiuto militare internazionale fornito dalla coalizione a guida statunitense, ma anche grazie all’intervento di migliaia di miliziani sciiti provenienti dal sud del paese e in parte dall’Iran.

    Nel 2014, l’Iraq ha perso la sua unità, quando dalla moschea di al-Nuri di Mosul, il califfo Abu Bakr al-Baghdadi dichiarò la fondazione del sedicente Stato Islamico, riunendo tutti i territori iracheni e siriani sotto il controllo dei suoi uomini.

    Oggi il governo di Baghdad deve anche far fronte alle rivendicazioni delle molteplici comunità del paese che, a cominciare dai curdi nel nord, non ne riconoscono più l’autorità sull’intero territorio. Il governo regionale del Kurdistan ha annunciato infatti la convocazione di un referendum per l’indipendenza, una consultazione che Baghdad, così come gli stati confinanti con l’Iraq, non hanno intenzione di riconoscere.

    È possibile una vera riunificazione dell’Iraq, dopo la cacciata dell’Isis? 

    “L’origine di tutti i mali”

    Il Regno dell’Iraq, che fino ai primi due decenni del Novecento era una provincia dell’Impero ottomano, nacque con la fine della prima guerra mondiale come uno stato a sovranità limitata sotto il mandato della Società delle Nazioni, affidato all’Impero britannico.

    Gli accordi che precedettero la fondazione della monarchia affidata al re hashemita Faysal – che fu in principio re della Siria nonché fautore della rivolta araba contro i turchi, a cui partecipò anche il famoso ufficiale britannico Lawrence d’Arabia – furono negoziati a tavolino nel 2016, tra le potenze dell’epoca, Francia e Regno Unito, senza il consenso delle popolazioni locali, nel 1916.

    Le caratteristiche etno-linguistiche e confessionali presenti sul campo non furono prese in considerazione nella redazione dell’accordo Sykes-Picot, che definiva le rispettive sfere di influenza nel Medio Oriente in base a precise esigenze economiche e di approvvigionamento energetico.

    Proprio questo accordo è stato più volte citato dai membri del sedicente Stato Islamico come “l’origine dei mali” della regione, un’imposizione dal carattere coloniale che aveva separato territori come la Siria orientale e l’Iraq occidentale che da sempre avevano condiviso destini e amministrazioni comuni. Il principale ispiratore della rivoluzione russa, Vladimir Lenin, definì il piano “un accordo tra ladri colonizzatori”.

    Da quel documento e dalla successiva Conferenza di Sanremo del 1920 nasceranno, in diverse forme e con differenti fortune, gli attuali stati di Siria e Iraq.

    Non è un caso che entrambi questi paesi vivano ancora una fase di disgregazione interna a causa del mosaico etnico che li contraddistingue.

    Il vuoto politico creato da questa situazione è terreno fertile per gruppi terroristici che propongono una visione violenta del mondo ma che al contempo rappresentano, per alcune comunità, le uniche forze in campo che siano in grado di fare della propria causa la loro.

    – Leggi anche: Che ne è del trattato che ha disegnato il Medio oriente?

    Un mosaico etnico-religioso

    L’Iraq è un paese disomogeneo: quasi l’80 per cento della popolazione appartiene all’etnia araba, con oltre il 15 per cento di curdi e alcune minoranze turcomanne, assire e armene.

    Il panorama religioso complica la situazione. Tra gli arabi, la maggioranza della comunità – che rappresenta oltre il 60 per cento del paese – professa la fede sciita, mentre solo poco più del 20 per cento degli iracheni è arabo di confessione sunnita.

    La distribuzione dei gruppi etnici e religiosi in Iraq

    Gli arabi sunniti vivono nelle zone centro-occidentali dell’Iraq, mentre gli sciiti occupano le aree sudorientali tra Kuwait e Iran. I curdi, stanziati soprattuto nel nordest del paese, sono in prevalenza musulmani sunniti, ma una piccola parte di questa comunità professa la fede yazida, un antico culto misterico tollerato per secoli dalle autorità islamiche.

    Ai principali gruppi etnici vanno ad aggiungersi assiri, armeni e caldei: sono le minoranze cristiane del paese, che fino al 2003 contavano quasi un milione e mezzi di fedeli. Questo numero, a causa della guerra e delle persecuzioni degli estremisti, non raggiunge oggi le 200mila persone.

    Alle differenze etniche si aggiungono poi quelle linguistiche. Se l’arabo è la lingua più parlata, l’articolo 4 della Costituzione irachena riconosce dignità anche al curdo come seconda lingua ufficiale e al turcomanno, al siriaco, parlato dalla comunità assira e all’armeno, in quelle aree dove queste comunità sono in maggioranza.

    Queste lingue appartengono a ceppi diversi: l’arabo è una lingua semitica, il curdo appartiene alla famiglia indoeuropea – come il farsi, la lingua più parlata in Iran.

    L’Iraq è quindi un paese in cui convivono milioni di persone con religioni, storia, origini, lingue e culture diverse. Un’indubbia ricchezza culturale, che si è trasformata nei decenni in insuperabili divisioni tra le differenti comunità.

    La comunità arabo-sunnita

    I problemi relativi alla Fitna, ossia lo scontro tra le confessioni sciita e sunnita nel mondo islamico, affliggono l’Iraq fin dalla sua nascita. Gli episodi di violenza settaria sono spesso stati influenzati da eventi politici legati alla contingenza nazionale e internazionale.

    La tradizionale guida del paese è stata affidata perlopiù ad appartenenti della comunità arabo-sunnita – in particolare, negli ultimi decenni, al clan della famiglia di Saddam Hussein e ai dirigenti del partito Baath, formazione d’ispirazione panaraba – che hanno portato il governo di Baghdad al conflitto con la minoranza curda, con cui si sono alternati scontri militari, tregue, accordi e violazioni di questi ultimi.

    La guerra contro la teocrazia islamica di confessione sciita dell’Iran, durata dal 1980 al 1988, ha causato quasi due milioni di morti da entrambe le parti e ha soffiato sul fuoco delle tensioni inter-comunitarie contro la maggioranza sciita del paese.

    Lo stesso casus belli di quel conflitto, la rivendicazione da parte di Baghdad di alcune aree dell’Iran, abitate da arabi, trovava infatti una giustificazione etnica che non tutti gli iracheni potevano sostenere.

    I rappresentanti di queste due comunità, a seguito dell’invasione della coalizione internazionale del 2003, hanno così potuto non solo riprendere l’autonomia negata dalla dittatura di Saddam Hussein ma, attraverso il nuovo sistema democratico imposto dagli Stati Uniti con l’amministrazione guidata dal diplomatico statunitense Lewis Paul Bremer, sono riuscite a prendere il sopravvento sugli arabi sunniti e controllare il paese.

    Le tre elezioni organizzate nel 2004 – la prima per eleggere l’assemblea costituente, la seconda per approvare la nuova costituzione federale e la terza per il nuovo parlamento – furono boicottate da buona parte della popolazione arabo sunnita. Un disimpegno non imitato dagli arabi sciiti né dai curdi, che si trovarono così – per la prima volta nella loro storia – a gestire il potere.

    Il governo di Baghdad fu guidato da una coalizione politica i cui partiti e principali rappresentanti provenivano in maggioranza dalla comunità arabo-sciita. La collaborazione della nuova amministrazione con le forze armate straniere impegnate nella pacificazione del paese, serrò così i ranghi degli arabi sunniti contro un nuovo potere in Iraq che, per la prima volta nella loro storia, li escludeva.

    La decisione dell’amministrazione Bremer di sciogliere non solo il partito Baath ma anche quelle formazioni militari e paramilitari come la Guardia repubblicana in cui migliaia di soldati, per lo più arabo sunniti, avevano servito per decenni, non fece altro che regalare truppe addestrate ed esperte alla rivolta.

    Nel 2004, la città di Fallujah fu teatro di cruenti scontri tra i ribelli e le forze di occupazione, soprattuto statunitensi. L’uccisione di quattro contractor stranieri, appartenenti alla compagnia militare privata che all’epoca si chiamava Blackwater e l’esposizione dei corpi al pubblico ludibrio, fece scattare due operazioni di riconquista della città, in un assedio che durò oltre sei mesi.

    Fu questo il primo esempio di insorti legati al vecchio regime che incrociarono le armi con i ribelli di ispirazione islamista. A Fallujah operava Abu Musab al-Zarqawi, il famigerato terrorista giordano legato ad al-Qaeda che per primo inaugurò la decapitazione degli ostaggi e la diffusione dei cruenti video su internet.

    La situazione sul campo nelle province centro occidentali dell’Iraq si fece così grave che l’amministrazione Bush, nel 2007, decise di mutare strategia e di finanziare alcune delle milizie sunnite, quelle non ispirate da motivi religiosi, ma che avevano comunque combattuto contro la coalizione per infrangere il fronte dei ribelli. A questa mossa militare, i diplomatici statunitensi affiancarono una rinnovata apertura a membri della comunità arabo sunnita irachena a partecipare al governo del paese.

    La strategia diede i suoi frutti, calmando inizialmente il clima di tensione con le forze di occupazione, ma senza riuscire a fermare le violenze inter-religiose. I numeri delle vittime internazionali calarono, ma in compenso aumentarono gli attentati contro i civili, in un clima di violenza settaria senza precedenti.

    Le aspirazioni di ripresa del potere da parte della comunità sunnita contro l’odiato governo del primo ministro Nuri al-Maliki che guidò il paese dal 2006 al 2014, ripresero vigore in concomitanza con il ritiro delle truppe internazionali operato nel 2011.

    Senza l’appoggio della coalizione a guida occidentale, il governo di Baghdad cominciò a perdere terreno nelle sue province, fino a lasciarne il totale controllo al sedicente Stato Islamico, un gruppo nato dalle ceneri della ribellione di Fallujah e dall’unione con pezzi della rivolta siriana, in particolare con parte del gruppo al-Nusra, legato ad al-Qaeda e cresciuto nel mito del terrorista Zarqawi.

    – Leggi anche: Chi è Abu Bakr al-Baghdadi

    L’ascesa dell’Isis

    La capacità di penetrazione dei miliziani di al-Baghdadi, accolti come liberatori dalla popolazione di alcuni centri urbani, non si spiega solo con l’inettitudine e la compiacenza dei comandi iracheni che abbandonarono intere città come Mosul senza sparare un solo colpo.

    Il consenso necessario alla creazione di un’entità parastatale come quella creata dagli uomini del sedicente Califfato ha trovato la propria giustificazione nella volontà della comunità arabo-sunnita di tagliare i legami con il governo di Baghdad, che considerava ostile ai propri interessi.

    L’arruolamento di ex generali e ufficiali dell’esercito iracheno tra le fila dell’Isis consegnò al gruppo terroristico una struttura di comando capace ed esperta in campo bellico, e dimostrò quanto le tensioni settarie all’interno dell’Iraq avessero colpito la società a tutti i livelli.

    Nemmeno gli alti ranghi delle forze armate avevano più intenzione di combattere per un paese unito, ma si lasciavano guidare da intenti di carattere etnico-religioso. La presenza di questo personale è stata decisiva nelle fortune belliche dell’Isis e ha dall’inizio conferito legittimità al movimento.

    La fine di questa organizzazione terroristica è ancora lontana, proprio come la soluzione del conflitto tra le comunità sunnita e sciita. Le cause che hanno portato a questa situazione sono ancora tutte in campo, mentre il terrorismo potrebbe rinascere sotto nuove forme.

    “Una volta privato del controllo territoriale e dell’impalcatura para-statale che ne ha caratterizzato l’evoluzione a partire dal 2014, con buona probabilità Isis tornerà ad assumere quella forma di insorgenza tipica delle sue precedenti incarnazioni, da Jamat al-Tawhid wal-Jihad ad al-Qaeda in Iraq allo Stato Islamico dell’Iraq, protagoniste di primo piano nella mancata stabilizzazione dell’Iraq dopo il 2003”, si legge nel report dell’Osservatorio parlamentare italiano sulla politica internazionale del 2017.

     – Leggi anche: L’Isis spiegato

    Un Kurdistan poco unito

    La comunità curda irachena, stretta nel nord-est del paese, tra Turchia e Iran, confina con zone popolate da altre popolazioni curde. I soprusi e le discriminazioni subite e le sue aspirazioni all’indipendenza suscitano le simpatie delle opinioni pubbliche occidentali.

    Ma la visione unitaria del Kurdistan iracheno, come solida e affidabile entità politica, si scontra con la realtà.

    Le divisioni all’interno del Kurdistan

    Il retaggio della guerra civile, che imperversò nelle terre curde tra il 1994 e il 1998 tra le due principali fazioni politiche del paese, produce i suoi effetti ancora oggi.

    Il Kurdistan iracheno ha visto nella sua storia l’affermarsi di due formazioni partitiche principali: il Partito democratico curdo, diretto oggi dal presidente della regione autonoma in Iraq, Masoud Barzani, e l’Unione patriottica del Kurdistan, legata al clan dell’ex vicepresidente Jalal Talabani.

    Il partito di Barzani rappresenta l’incarnazione più tradizionalista e conservatrice della politica curdo-irachena e coltiva legami con il governo di Ankara, con cui si susseguono stagioni di conflitto a periodi di collaborazione.

    Il principale motivo di vicinanza tra questa formazione politica e la Turchia riguarda il conflitto politico che vede il Partito democratico curdo confrontarsi con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), una formazione di ispirazione internazionalista e di sinistra, attiva soprattutto tra le montagne del confine turco-iracheno e tra la comunità curdo-siriana.

    Il clan Talabani invece è stato storicamente vicino alle posizioni di Teheran, anche se ogni alleanza politica, soprattutto a livello internazionale, è risultata fragile e frutto della contingenza.

    Ogni paese della regione – Siria, Turchia, Iraq e Iran – ha sempre negato la possibilità di creare uno stato curdo indipendente e la politica di questi governi si è concentrata sulla formazione di alleanze con gruppi politici locali allo scopo di dividere il fronte indipendentista.

    A seguito della prima guerra del Golfo, quando gli Stati Uniti incitarono i curdi a ribellarsi all’autorità di Baghdad e le truppe fedeli ai due partiti principali occuparono Erbil, Dohuk, Sulaymaniyah e Kirkuk, i paesi confinanti con l’Iraq non mossero un dito per fermare la repressione successiva da parte delle truppe di Saddam Hussein.

    Questa situazione locale portò a un conflitto aperto tra i Barzani e i Talabani, sfociando nella guerra civile che finì solo con gli accordi di pace del 1998, siglati grazie alla mediazione statunitense.

    Il Kurdistan iracheno venne così diviso in due sottogoverni, uno con sede a Erbil, guidato dal partito di Barzani, e uno con sede a Sulaymaniyah, guidato dal clan Talabani.

    Di fatto questa divisione è rimasta immutata anche dopo la riunificazione del parlamento curdo. Soltanto il 30 per cento delle truppe peshmerga, i militari curdo-iracheni, portano al braccio le insegne del governo regionale.

    Tutti gli altri si identificano ancora con i simboli di uno dei due partiti. Nonostante il governo unico di Erbil, oggi esistono ancora due Kurdistan iracheni, ciascuno con i suoi militari e con la sua linea di comando.

    – Leggi anche: Il Kurdistan nel cuore di Roma

    A questa situazione va aggiunta la complessa vicenda legata alla comunità yazida. Lo yazidismo è in tutto e per tutto una religione, la comunità yazida è etnicamente curda e professa un culto misterico tollerato per secoli dalle autorità islamiche.

    La pulizia etnica operata dai combattenti dell’Isis ha tagliato i legami di queste persone con il resto della popolazione arabo sunnita con cui aveva convissuto pacificamente per secoli, soprattutto nell’area intorno alla città di Sinjar.

    Le autorità di Erbil hanno così cominciato a integrare brigate yazide, oltre che assire, all’interno delle proprie forze e hanno utilizzato l’offensiva contro il sedicente Stato Islamico su Mosul per far avanzare queste truppe in un’area che, secondo la costituzione irachena, non ricade sotto l’autorità del governo regionale curdo.

    Questi militari sono stati così accusati di aver preso parte alla cacciata degli abitanti arabo sunniti della regione di Sinjar, allo scopo di creare una fascia di territorio a maggioranza yazida e assira sotto l’autorità del governo Barzani, in modo da formare una zona cuscinetto tra le province a maggioranza araba e quelle a prevalenza curda.

    Queste manovre sono state interrotte proprio alla vigilia dell’entrata delle forze irachene all’interno della città di Mosul, quando il governo di Baghdad, di concerto con la coalizione guidata dagli Stati Uniti, ha chiesto ai peshmerga di restare fuori dall’area urbana delle operazioni.

    Le mosse del governo di Erbil, che mirano ad ampliare il territorio sotto il suo controllo, unite alle velleità indipendentiste annunciate con il referendum che dovrà tenersi a settembre 2017, preoccupano le autorità irachene e quelle dell’intera regione, i cui paesi non hanno intenzione di riconoscere legittimità ad alcun governo curdo indipendente.

    – Leggi anche: La storia di Rojava, società utopica curda al confine dei territori dell’Isis

    Le milizie armate sciite

    Un altro fattore di divisione, oltre alle aspirazioni indipendentiste curde e al rapporto tra la comunità arabo-sunnita e il governo centrale, è la presenza di truppe di ispirazione confessionale sciita che affiancano i soldati regolari di Baghdad.

    Queste unità militari sono formate da combattenti provenienti prevalentemente dalla comunità sciita e i loro comandanti sono legati alle forze militari iraniane che operano da anni nella vicina Siria, a sostegno del regime di Bashar al-Assad.

    Fin dai tempi del regime di Saddam, il governo di Teheran ha cercato di interferire nella politica irachena attraverso la formazione di milizie di ispirazione confessionale come le Brigade Badr. Dopo l’intervento militare della coalizione nel 2003, si sono formate varie altre compagini militari simili, tra cui l’Esercito del Mahdi, sotto il controllo dell’imam sciita Moqtada al-Sadr.

    Tutti questi gruppi si sono poi raggruppati nelle Unità di Mobilitazione Popolare. La nascita di questa formazione si fa risalire alla chiamata alle armi dell’ayatollah sciita iracheno Ali al-Sistani che, dopo il dileguarsi dell’esercito regolare a Mosul, chiamò a raccolta la popolazione per combattere contro l’Isis.

    Dal punto di vista legale, furono istituite con il decreto firmato nel 2014 dall’allora primo ministro Nouri al-Maliki, che, in contrasto con la costituzione in vigore nel paese, legittimò l’esistenza di questo corpo paramilitare.

    Nel febbraio 2016 poi, con l’ordine esecutivo numero 91, queste unità furono inquadrate come entità stabili ma indipendenti all’interno delle forze di sicurezza irachene. Questa compagine militare si compone di circa 140mila combattenti, quasi esclusivamente di fede sciita, anche se non mancano eccezioni, con gruppi sunniti, yazidi o cristiani.

    – Leggi anche: Chi sono sciiti e sunniti

    Il loro impiego nella lotta contro Isis è stato prezioso in battaglie come la riconquista di Mosul, ma le loro azioni sono state criticate e i comandanti accusati di portare avanti una politica di discriminazione nei confronti della popolazione araba sunnita dai territori riconquistati.

    Nonostante queste milizie dichiarino di combattere per ogni etnia e fede presente in Iraq, sono indicate come i principali rappresentanti della violenza settaria di ispirazione sciita nel paese e accusati di voler avere un ruolo in Iraq ben oltre la fine del conflitto in corso.

    Non tutte le unità presenti in questa formazione hanno come orizzonte temporale la sconfitta del sedicente Stato Islamico.

    Se le milizie fedeli ad al-Sistani e ad al-Sadr hanno dichiarato che alla fine della guerra si scioglieranno o entreranno a far parte dell’esercito regolare iracheno, non è chiaro quale sarà la sorte di quelle compagini vicine alle forze di sicurezza iraniane.

    Queste unità militari, il cui riferimento politico resta l’ex premier iracheno Nuri al-Maliki, sono vicine alle brigate al-Quds, le forze speciali delle guardie rivoluzionarie dell’Iran. L’inquadramento di queste compagini all’interno degli apparati di sicurezza iracheni mira proprio all’estromissione di queste forze dalla politica.

    D’altra parte, l’acquisito carattere ufficiale di questo corpo armato ne fa un indubbio protagonista della vita del paese per gli anni a venire, costituendo una variabile da considerare per gli sviluppi futuri della politica irachena.

    Come uscirne?

    Il futuro di un paese unito dipenderà in gran parte dalla volontà politica degli attori nazionali, come le fazioni militari e i gruppi di potere legati alle diverse comunità etniche e religiose, e di quelli internazionali, con particolare attenzione agli interessi di Iran e Turchia.

    Le divisioni tra le diverse anime dell’Iraq, soprattutto tra gli arabi di confessione sunnita e quelli di confessione sciita e le aspirazioni indipendentiste curde, restano il punto focale della questione irachena, anche se hanno da sempre rappresentato il motore della politica di Baghdad.

    Il bilanciamento dei poteri tra le varie comunità è stato e – se una forza interna o esterna riuscirà a tenere unito il paese – tornerà a essere il vero obiettivo di tutti gli attori politici iracheni, la cui competizione per il potere e per la gestione dei proventi dell’estrazione del petrolio ha storicamente rappresentato il miglior collante del paese.

    Un discorso a parte merita il sedicente Stato Islamico, la cui sconfitta – data per certa da tutti i commentatori mediorientali – tarda ancora ad arrivare. Caduta Mosul in Iraq e circondata Raqqa in Siria, i miliziani di Abu Bakr al-Baghdadi hanno cominciato ad avanzare in altri paesi come l’Afghanistan e rappresentano ancora un fattore da tenere in considerazione nel futuro di quelle terre.

    Sia che quest’organizzazione decida di cambiare forma e tornare a operare come il gruppo di insorti di ispirazione islamista che fu alla sua nascita, sia che risorga in forme parastatali locali sfruttando le stesse divisioni settarie che ne hanno favorito la formazione, il governo iracheno dovrà fare i conti con i postumi di un’amministrazione che, per tre anni, ha governato oltre un terzo del suo territorio, cambiando per sempre la vita dei suoi abitanti e segnando inesorabilmente la regione.

    In questo periodo sono nati e cresciuti decine di migliaia di bambini e altrettanti ragazzi e ragazze sono stati sottoposti a una massiccia campagna di indottrinamento, i cui effetti, difficilmente quantificabili al momento, si faranno sentire negli anni a venire e saranno un fattore da tenere certamente presente della vita pubblica irachena.

    Allargando lo sguardo all’intera area, l’intervento di poteri esterni quali Stati Uniti, Russia e Arabia Saudita, saranno utili a ricomporre il quadro iracheno e siriano, da cui le sorti di Baghdad non possono prescindere, solo se riusciranno a mediare tra interessi locali, regionali e globali al fine di porre un freno alle divisioni intra e inter-comunitarie in Medio Oriente.

    Ad ogni modo, il ruolo principe nella stabilizzazione di questi paesi spetterà alle maggiori potenze regionali: Arabia Saudita e Iran. Il peso di questi attori sullo scacchiere mediorientale, da cui gli Stati Uniti sembrano in graduale ritirata e dove il potere russo non riesce a penetrare a fondo per ragioni storiche, risulta ormai più importante di quello delle potenze globali.

    Il conflitto asimmetrico tra Riad e Teheran, che coinvolge ormai non solo l’Iraq e la Siria ma anche lo Yemen e in cui si inserisce la crisi diplomatica con il Qatar, sta assumendo i contorni di uno scontro totale in cui i due paesi sfruttano ogni divisione nella regione per scendere in campo, l’uno contro gli interessi dell’altro.

    Se non si giungerà a un reciproco riconoscimento delle legittime aspirazioni di potenza dei due attori mediorientali principali, non solo risulterà impossibile una riconciliazione dell’Iraq senza ulteriori spargimenti di sangue, ma la disgregazione in atto a Baghdad e Damasco contagerà l’intera regione.

    Bisogna ricordare che non sono soltanto Iraq e Siria a essere state create sulla mappa per seguire interessi coloniali differenti a discapito delle ambizioni delle popolazioni locali e delle divisioni etniche, linguistiche e religiose che contraddistinguono questi territori.

    Un accordo regionale sarà necessario a evitare una balcanizzazione dell’intero Medio Oriente che potrebbe coinvolgere anche paesi rivelatisi poco stabili negli ultimi anni come Libano, Turchia ed Egitto e in cui, sebbene con tassi di disomogeneità differenti, sono presenti tutti gli ingredienti di quella disgregazione che affligge sia Baghdad che Damasco: un mosaico etnico, un’identità nazionale legata a regimi poco o per nulla democratici e una stabile presenza sul terreno di movimenti islamisti che soffiano sul fuoco delle divergenze tra le varie comunità.

    È auspicabile un chiaro e completo accordo che tenga conto di tutte le parti in causa, sia quelle esterne che quelle interne, e che non escluda pregiudizialmente nessuno, affinché tutte le autorità si sentano riconosciute e possano deliberare la pace senza timore di essere abbattute. Può allora tornare utile un paragone storico, proveniente dalle dimenticate guerre di religione europee.

    All’inizio del XVII secolo, durante la guerra dei Trent’anni, la Germania era nel caos, divisa da una guerra civile che coinvolgeva lingue, classi sociali e religioni (nominalmente si fronteggiavano cattolici e protestanti) che era fomentata dalle vicine potenze dell’epoca.

    Nel 1635, a Praga, ci fu un tentativo di pace tra i soli principi tedeschi e l’imperatore del Sacro Romano Impero, che fallì proprio perché le grandi potenze ne erano rimaste escluse. Ci vollero altri 13 anni di guerra per giungere a una pace completa, il trattato di Westfalia del 1648, che mise fine al conflitto e pose le basi per il mutuo riconoscimento della sovranità statale in Europa.

    A questo sarebbe dunque necessario arrivare, per pacificare non solo l’Iraq ma l’intero Medio Oriente, senza la cui stabilità Baghdad non troverà mai pace: al reciproco riconoscimento, in particolare tra le potenze regionali, del diritto di esistere e di avere delle legittime aspirazioni di potenza sulla regione, abbandonando il conflitto armato e confrontandosi sullo sviluppo economico e umano dell’area.

    – Leggi anche: Sono stata in Iraq, a due passi dall’Isis con una combattente curda

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