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    La guerra più breve della storia

    Credit: Reuters

    Non è la guerra dei sei giorni combattuta tra Israele e alcuni stati arabi 50 anni fa, e neppure il conflitto delle Falklands tra Regno Unito e Argentina che durò appena 73 giorni

    Di Andrea Lanzetta
    Pubblicato il 27 Ago. 2017 alle 19:34 Aggiornato il 12 Set. 2019 alle 00:40

    La divergenza di opinioni tra storici e giornalisti riguardo la durata di un conflitto non è affatto banale. Contare gli anni di durata di un confronto armato tra due o più nazioni non è semplice quanto sembra. “Quanto è durata una guerra?” è una domanda che prevede una risposta complessa, che coinvolge diversi fattori.

    Il problema della datazione dei conflitti riguarda soprattutto la causa scatenante della guerra, l’effettivo termine delle ostilità, la definizione dei confini, anche geografici, del conflitto, la resistenza e l’effettiva esistenza in vita delle parti coinvolte.

    La convenzionalità delle date e dei punti di vista assunti da chi ricorda, ricerca e racconta i conflitti riguarda quindi il consenso che queste scelte trovano tra gli accademici e, in seguito, tra il pubblico.

    Ma qual è stato il conflitto più breve mai combattuto nella storia? Ecco le tre guerre che hanno voluto il minor sviluppo temporale.

    3. La guerra dei sei giorni

    Fu combattuta da Israele contro Giordania, Iraq, Siria ed Egitto per sei giorni nel 1967.  Il conflitto permise al governo israeliano di conquistare Gerusalemme Est e di entrare a Gaza e in Cisgiordania e di conquistare la penisola del Sinai, che sarà restituita all’Egitto solo negli anni Settanta, a seguito della cosiddetta guerra dello Yom Kippur.

    È proprio durante questo conflitto che furono definiti la maggior parte degli attuali confini tra Israele e Palestina ed è in generale a queste conquiste militari che si fa riferimento a livello internazionale quando si chiede al governo di Tel Aviv di rientrare nei propri possedimenti e di concludere l’occupazione dei territori palestinesi.

    Nel 1967, a seguito della situazione di tensione venutasi a creare al confine tra Israele e la Siria, i servizi segreti dell’Unione Sovietica avvertirono Damasco e Il Cairo che l’esercito di Tel Aviv stava ammassando uomini e mezzi al confine dei due paesi e che gli israeliani si preparavano ad attaccare.

    L’informazione si rivelò successivamente falsa, ma scatenò una serie di eventi che portò poi alla guerra. L’Egitto del presidente Gamal Abdel Nasser decise così di schierare oltre mille carri armati e quasi 100mila soldati nella penisola del Sinai, al confine con Israele.

    Nasser minacciò anche di chiudere lo stretto di Tiran, all’ingresso del golfo di Aqaba, dove si affaccia il porto israeliano sul mar Rosso di Eilat, a tutte le navi battenti bandiera israeliana e dichiarò che ogni imbarcazione sarebbe stata perquisita per impedire l’arrivo in Israele di materiali strategici.

    L’Egitto si fece promotore di un’azione araba unita contro Tel Aviv, mentre il governo israeliano, presieduto dal primo ministro nonché ministro della Difesa Levi Eshkol, cercò in tutti i modi di giungere a una soluzione diplomatica del conflitto.

    Viste però le incombenti minacce provenienti dal Cairo e da Damasco, a cui si aggiunsero poi sia l’Iraq, sia la Giordania, il cui re Hussein, dopo un decennale rapporto di freddezza con Nasser, firmò un’alleanza militare tra il suo paese e l’Egitto, Eshkol fu prima costretto a dimettersi da ministro della Difesa, in favore del generale Moshe Dayan e poi ad acconsentire a dare il via all’operazione Focus.

    L’aviazione israeliana portò infatti a termine un attacco aereo a sorpresa sulla penisola del Sinai, distruggendo completamente le forze aeronautiche egiziane, impedendo così qualsiasi contrattacco arabo all’azione militare israeliana.

    In soli sei giorni le forze di Tel Aviv conquistarono l’intera penisola del Sinai, arrivando a bloccare il canale di Suez, occuparono la striscia di Gaza, la Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est e raggiunsero le alture del Golan, che fino ad allora erano in mano siriana.

    Nel complesso Israele ampliò il suo territorio di tre volte, occupando terre in cui vivevano oltre un milione di arabi. La profondità strategica israeliana crebbe di oltre 300 chilometri a sud, 60 chilometri a est e 20 chilometri a nord, riuscendo così ad allontanare le forze armate dei propri bellicosi e vicini nemici.

    Questo costituirà il casus belli ma anche un vantaggio importante durante la successiva guerra dello Yom Kippur del 1973, permettendo al governo di Tel Aviv di non essere sopraffatto dalle forze arabe molto meglio organizzate e armate in quel conflitto.

    La guerra dei sei giorni causò oltre tremila morti tra gli israeliani e almeno 21mila deceduti tra gli eserciti arabi nemici ed è a tutt’oggi motivo di discussione tra i diplomatici dei paesi coinvolti, nonché un importante motivo del contendere tra il governo di Tel Aviv e le popolazioni dei territori palestinesi occupati.

    2. La guerra del football

    Combattuta nel 1969 tra gli stati centroamericani di Honduras e El Salvador, durò appena 100 ore e nonostante la sua durata limitata fu un conflitto sanguinoso che fece oltre seimila vittime, prima che l’Organizzazione degli Stati americani (Osa) imponesse alle due nazioni il cessate il fuoco.

    Fu definita dal giornalista polacco che fu testimone del conflitto, Ryszard Kapuściński, la “guerra del football”, in riferimento alla guerriglia avvenuta tra le tifoserie dei due paesi, durante le qualificazioni ai campionati mondiali di calcio tenutisi nel vicino Messico nel 1970.

    Le selezioni di calcio delle due nazioni erano infatti in competizione per un posto al mondiale messicano che vedrà trionfare il Brasile di Pelé sull’Italia che aveva avuto ragione della Germania Ovest in quella che fu definita “la partita del secolo”.

    Le due nazionali si affrontarono in ben tre partite per definire quale delle due avrebbe partecipato ai mondiali, le prime due giocate in casa da ognuna delle squadre e la terza che fu disputata in campo neutro, in Messico e che scatenò la guerriglia tra le opposte tifoserie.

    Ma il conflitto armato non fu certo generato da una manciata di partite di calcio. Le vere ragioni della rivalità tra i due paesi risiedevano in una controversia storica tra Tegucigalpa e San Salvador, dove quest’ultima lamentava non solo il mancato sbocco sull’oceano Atlantico ma anche il dominio dell’Honduras sul golfo di Fonseca, uno snodo strategico per il commercio tra Nord e Sud America.

    La disparità di condizioni economiche tra El Salvador e il proprio vicino del nord aveva poi inasprito le relazioni per tutto l’inizio del Novecento. La sovrappopolazione dovuta alla grande produzione agricola che il governo di San Salvador doveva affrontare fu risolta con un accordo con Tegucigalpa.

    Nel 1967 infatti, i due Stati firmarono la Convenzione bilaterale sull’immigrazione che permetteva ai campesinos, gli agricoltori salvadoregni, di trasferirsi al di là del confine per occupare alcune terre incolte dell’Honduras.

    Furono oltre 300mila i cittadini di San Salvador a scegliere di espatriare, ma il governo dell’Honduras decise, solo due anni dopo nel 1969, di privarli dei campi e delle proprie case prima di espellerli dal paese, rispedendoli in Salvador, dove non avevano più nulla.

    L’espulsione causò le proteste del governo di El Salvador, che però non sortirono alcun effetto. Nonostante le due nazioni fossero entrambe alleate degli Stati Uniti nel quadro della guerra fredda, la piccola nazione centroamericana decise di attaccare il proprio vicino del nord, occupando alcune zone di confine.

    Le operazioni militari iniziarono il 14 luglio del 1969 e terminarono appena 4 giorni dopo, il 18 luglio, quando l’Osa impose un cessate il fuoco alle parti. Alla fine della guerra, almeno cinque mila cittadini dell’Honduras erano morti e più di mille furono i caduti di El Salvador.

    L’Organizzazione degli Stati americani minacciò entrambi i paesi di pesanti sanzioni economiche e, grazie alla mediazione degli Stati Uniti, i due governi giunsero a un accordo, secondo cui El Salvador restituì i territori conquistati all’Honduras, che già in realtà era riuscito in gran parte a riprendere, mentre Tegucigalpa si impegnava a permettere ai campesinos espulsi il ritorno alle proprie case e alle loro proprietà.

    “I due governi sono rimasti soddisfatti della guerra, perché per qualche giorno Honduras e Salvador hanno riempito le prime pagine dei giornali di tutto il mondo e suscitato l’interesse dell’opinione pubblica internazionale”, notò Kapuściński nel suo libro La prima guerra del football e altre guerre di poveri, pubblicato per la prima volta nel 1978.

    1. La guerra Anglo – Zanzibariana

    Ricordato dagli storici del Regno Unito come “The forty minutes work” – un affare di quaranta minuti – si svolse tra le forze navali dell’allora Impero britannico e il sultanato di Zanzibar, un arcipelago situato nell’oceano indiano, al largo della costa centro orientale dell’Africa.

    Le basi del conflitto furono gettate con il trattato di Helgoland-Zanzibar, noto anche come accorgo anglo-tedesco, che nel 1890 definì le rispettive sfere di influenza delle due potenze europee in Africa.

    Questo accordo prevedeva che l’Impero tedesco riconoscesse il dominio coloniale di Londra in Africa orientale, mentre allo stesso tempo, Sua Maestà britannica concedeva alcune isole del nord Europa a Berlino e ne riconosceva i diritti sulla costa dell’attuale Tanzania, in particolare intorno alla città di Dar es Salaam.

    A seguito di questo trattato, nel 1893, l’arcipelago di Zanzibar divenne un protettorato britannico, con a capo il sultano Hamad bin Thuwaini, che restò fedele all’impero di Londra fino alla sua morte, avvenuta il 25 agosto del 1896.

    Fu proprio una disputa sulla successione al trono che portò all’inizio delle brevissime ostilità. Fu infatti Khalid bin Barghash, cugino del precedente sultano, a succedergli, senza ottenere il beneplacito di Londra.

    Un accordo del 1886 tra l’Impero britannico e il piccolo sultanato prevedeva infatti che, prima di salire al trono, qualsiasi candidato alla guida di Zanzibar dovesse ottenere il consenso del console britannico presente nelle isole, Sir Basil Cave.

    Londra diede così un ultimatum al nuovo sultano Khalid, il cui termine ultimò scadeva alle ore 9 del mattino del 27 agosto. Per nulla intenzionato a rinunciare al trono, Khalid armò quasi tremila uomini e preparò una nave da guerra al largo della costa su cui affacciava il palazzo reale.

    Fu inviato anche un ambasciatore presso il console britannico per negoziare un accordo, ma l’ambasciata non ebbe l’effetto sperato. Alle ore 9.02 fu dato inizio alle ostilità, con diversi colpi di cannone messi a segno dalla flotta di tre navi da guerra britanniche che incrociava al largo dell’arcipelago, mentre già alle 9.40 la bandiera del sultano fu ammainata dal palazzo reale.

    La guerra durò così appena 38 minuti, Khalid fuggì nella vicina Tanzania a dominio tedesco, dove fu arrestato soltanto nel 1916. Sul trono di Zanzibar salì invece il sultano Hamud bin Muhammed, che abolì la schiavitù nel piccolo regno e rimase fedele alla corona britannica fino alla propria morte, avvenuta nel 1902.

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