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    Gaza, Ft: “Boston Consulting Group ha partecipato a un progetto per ‘ricollocare’ 500mila palestinesi fuori dalla Striscia”. Ecco cosa prevede il progetto “Aurora”


    Palestinesi con gli aiuti ricevuti dalla Gaza Humanitarian Foundation a Bureiji nel giugno 2025. Credit: ZUMAPRESS.com / AGF

    La società di consulenza, che ha anche contribuito alla costituzione della Gaza Humanitarian Foundation, l’unico ente privato autorizzato a fornire aiuti nella Striscia con il sostegno di Israele e Usa, ha licenziato i partner coinvolti e rinnegato l’operazione

    Di Andrea Lanzetta
    Pubblicato il 7 Lug. 2025 alle 12:15 Aggiornato il 7 Lug. 2025 alle 12:35

    La società di consulenza Boston Consulting Group ha collaborato a un progetto per il cosiddetto “ricollocamento volontario” di 500mila abitanti palestinesi dalla Striscia di Gaza, che poi ha pubblicamente rinnegato.

    Il progetto “Aurora”
    Oltre una decina di dipendenti dell’azienda statunitense, secondo quanto rivelato da un’inchiesta del Financial Times, hanno lavorato, tra lo scorso ottobre e la fine di maggio, al progetto “Aurora”, un’iniziativa di cui hanno discusso anche alcuni importanti dirigenti della società. In particolare, secondo il quotidiano economico britannico, gli addetti del Boston Consulting Group hanno elaborato un modello finanziario per la ricostruzione nel dopoguerra a Gaza, che includeva stime dei costi per il cosiddetto “ricollocamento volontario” di centinaia di migliaia di palestinesi dalla Striscia e sull’impatto economico di tale “ricollocamento”. Uno degli scenari presi in considerazione dall’analisi prevedeva di offrire “pacchetti di trasferimento” del valore di 9.000 dollari a persona a oltre 500 mila abitanti per lasciare il territorio costiero palestinese, un’operazione dal costo totale di circa 5 miliardi di dollari. Tale operazione, secondo l’analisi,
sarebbe costata
23mila dollari in meno,
per ogni palestinese,
rispetto a quanto necessario
per fornire aiuti alla popolazione
durante la ricostruzione.
    La società si è dissociata, affermando che i suoi dirigenti sono stati ripetutamente ingannati sulla portata del progetto dai soggetti coinvolti. “Al partner principale è stato categoricamente detto di no, e ha violato questa direttiva”, ha fatto sapere l’azienda. “Rinunciamo a questo progetto”. Ma l’azienda ha anche contribuito alla costituzione della Gaza Humanitarian Foundation, l’unico ente privato autorizzato a fornire aiuti nella Striscia con il sostegno di Israele e Usa.

    I rapporti con la Gaza Humanitarian Foundation
    La Gaza Humanitarian Foundation gestisce infatti quattro centri di distribuzione degli aiuti a Gaza nel quadro di un sistema militarizzato, gestito da società di sicurezza private ​​statunitensi e sorvegliato dalle forze armate israeliane (Idf). Il governo del premier Benjamin Netanyahu ha infatti bloccato per mesi l’afflusso di materiali umanitari e beni commerciali nella Striscia, appoggiando infine le attività della fondazione, insieme agli Usa, per impedire che tali aiuti arrivino a Hamas.
    L’intera operazione ha permesso, secondo l’ente privato statunitense, di distribuire nella Striscia oltre un milione di pasti dal 26 maggio scorso. Da allora però fino al 27 giugno, secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, almeno 613 persone sono rimaste uccise durante la distribuzione degli aiuti a Gaza, di cui 509 nei pressi dei centri della fondazione. Alcuni soldati dello Stato ebraico, secondo un’inchiesta pubblicata dal quotidiano israeliano Haaretz, avrebbero ricevuto ordini di sparare “verso” la folla accalcata per ricevere gli aiuti anche in assenza di una chiara minaccia. Episodi confermati anche dall’Idf, che a fine giugno ha ammesso il ricorso “inaccurato e non calcolato” della forza in specifici casi, che però secondo Tel Aviv non dovranno accadere più dopo una revisione delle regole di ingaggio. Intanto la fondazione americana continua le operazioni a Gaza, mentre la Casa bianca ha annunciato un ulteriore stanziamento di 30 milioni di dollari per l’iniziativa, sul cui finanziamento però non si sa molto.
    Sappiamo comunque che il Boston Consulting Group ha partecipato alla creazione della fondazione. Secondo la società di consulenza statunitense, tutto era cominciato nell’ottobre scorso come un progetto “pro bono” volto a “contribuire a creare un’organizzazione umanitaria destinata a operare parallelamente ad altre attività di soccorso”. Tutto il lavoro successivo però, secondo Boston Consulting Group, “non era autorizzato”.

    Il Boston Consulting Group si dissocia
    Tanto che l’azienda ha addossato l’intera responsabilità della vicenda agli “errori di valutazione” commessi da due soci della propria divisione difesa con sede a Washington.
    “La nostra indagine in corso, condotta da uno studio legale esterno, ha confermato la profonda delusione che abbiamo espresso settimane fa. L’intera portata di questi progetti non è stata rivelata, nemmeno ai vertici aziendali”, ha fatto sapere la società di consulenza statunitense al Financial Times. Il lavoro svolto, ha aggiunto, era “in diretta violazione delle nostre politiche e procedure”. “Abbiamo interrotto il lavoro, abbiamo lasciato i due partner che lo avevano guidato, non abbiamo ricevuto compensi e abbiamo avviato un’indagine indipendente. Stiamo prendendo provvedimenti per garantire che ciò non accada mai più”.

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