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    Chi c’è dietro la Gaza Humanitarian Foundation

    Credit: SIPA - AGF

    Ha sede in Delaware e Svizzera. Ma è l’unica ong sostenuta da Israele e Usa per distribuire cibo nella Striscia. Ecco chi si nasconde dietro la misteriosa fondazione

    Di Andrea Lanzetta
    Pubblicato il 25 Lug. 2025 alle 11:39 Aggiornato il 7 Ago. 2025 alle 17:06

    Yousef vive a Deir el-Balah e il primo giorno di apertura ha percorso a piedi quasi una decina di chilometri per recarsi nel nuovo centro di distribuzione alimentare della Gaza Humanitarian Foundation (Ghf) a Rafah, nel sud della Striscia. Era il 29 maggio scorso e da undici settimane Israele impediva l’afflusso di aiuti e beni commerciali nel territorio costiero palestinese, mentre la misteriosa ong, l’unica sostenuta da Tel Aviv per consegnare cibo e generi essenziali alla popolazione, si preparava a operare nella zona, con l’appoggio degli Stati Uniti.
    Quel giorno Yousef è tornato dai suoi figli a mani vuote, rischiando persino la vita nella calca e per gli spari dei soldati di guardia sulla folla. Ma da allora la fondazione ha aperto altri quattro centri di distribuzione degli aiuti, affermando di aver distribuito «oltre 76 milioni di pasti gratuiti direttamente al popolo palestinese». Nello stesso periodo, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, almeno 875 persone sono morte a Gaza mentre cercavano di procurarsi del cibo, tra cui «674 uccise nelle vicinanze dei siti della Ghf». Il lavoro della fondazione è infatti molto pericoloso, tanto che almeno 12 suoi operatori sono stati uccisi nel corso delle distribuzioni di aiuti mentre i centri sono pattugliati da personale armato. L’ong si avvale infatti di contractor reclutati da due compagnie militari private statunitensi, che garantiscono la sicurezza nei corridoi e negli “hub” di distribuzione degli aiuti designati dalle autorità militari di Israele. Ma chi si nasconde dietro questa fondazione?

    Follow the money
    Di Gaza Humanitarian Foundation in realtà ne esistono due: una è stata registrata nel novembre scorso a New Castle, nello stato del Delaware, negli Stati Uniti; e l’altra a Ginevra, in Svizzera, nel febbraio di quest’anno. L’operazione però è unica e coinvolge ben più di due fondazioni.
    La Ghf tanto per cominciare non ha mai dichiarato ufficialmente chi siano i suoi finanziatori ma, secondo il quotidiano statunitense The Washington Post, ha già ricevuto promesse di donazione fino a 100 milioni di dollari da un governo straniero, anche se non è dato sapere quale. A fine giugno poi, secondo un documento pubblicato dall’agenzia di stampa britannica Reuters, è emerso che, attraverso l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (Usaid), gli Stati Uniti hanno erogato almeno 30 milioni di dollari a favore della fondazione, che è stata anche esentata dai controlli preliminari generalmente previsti per i soggetti che non avevano mai ricevuto prima finanziamenti federali.
    Intanto in Israele circola il sospetto che l’operazione sia stata finanziata direttamente da Tel Aviv. «Lo Stato di Israele è forse dietro a due società fantasma con sede in Svizzera e negli Stati Uniti per organizzare e finanziare gli aiuti umanitari a Gaza?», aveva chiesto in aula alla Knesset il 26 maggio scorso il leader dell’opposizione Yair Lapid prima di un voto di sfiducia contro il premier Benjamin Netanyahu. «I fondi provengono dal Mossad e dal ministero della Difesa», aveva denunciato sui social il giorno dopo l’ex ministro della Difesa e degli Esteri israeliano, Avigdor Liberman. Proprio a maggio, d’altronde, il governo di Tel Aviv aveva approvato lo stanziamento di 700 milioni shekel, circa 280 milioni di dollari, per non meglio specificate voci legate allo «apparato di difesa». Tali fondi, secondo l’emittente pubblica israeliana Kan, sarebbero serviti proprio a finanziare la fondazione, un’ipotesi seccamente smentita dall’ufficio del premier.
    Che lo Stato ebraico finanzi o meno la Gaza Humanitarian Foundation però, secondo il quotidiano statunitense The New York Times, l’intera iniziativa sarebbe stata frutto di «un’idea israeliana», proposta durante un incontro avvenuto già nel 2023 tra «funzionari, ufficiali militari e imprenditori con idee simili e stretti legami con il governo» di Tel Aviv. Tra le figure coinvolte figurerebbero gli investitori israeliani Liran Tancman e Michael Eisenberg; il consulente Yotam HaCohen, già membro dell’autorità militare che governa i territori palestinesi occupati e in seguito assistente del consigliere militare del primo ministro Netanyahu; e il generale Roman Gofman. Ma qui entra in gioco un nome che ritorna spesso quando si parla della Gaza Humanitarian Foundation e di una delle società direttamente collegata alla fondazione.

    L’avvocato e l’ex spia
    All’inizio dello scorso anno infatti, secondo il quotidiano statunitense, il gruppo israeliano avrebbe cominciato a intrattenere rapporti con Philip F. Reilly, che per 29 anni ha servito nei servizi clandestini della Cia, addestrando i paramilitari di estrema destra dei Contras in Nicaragua e diventando persino capo della stazione dell’intelligence americana a Kabul, in Afghanistan. Una versione confermata al New York Times dalla stessa ex spia, oggi consulente per diverse importanti società internazionali di sicurezza e non solo, che ha incontrato Eisenberg e Tancman all’inizio del 2024 per discutere della possibilità di aggirare i canali di aiuto tradizionali, collegati alle Nazioni Unite, per distribuire gli aiuti a Gaza sotto il diretto controllo israeliano.
    Per raggiungere l’obiettivo, attraverso Reilly, sono state coinvolte importanti realtà. In primis, secondo il quotidiano finanziario britannico The Financial Times, il think tank israeliano Tachlith Institute ha incaricato la società di sicurezza Orbis, con sede a Washington e per cui lavorava anche Reilly, di preparare uno studio di fattibilità sull’intera operazione. A sua volta, l’azienda statunitense ha scelto il Boston Consulting Group (Bcg), di cui l’ex membro della Cia è stato consigliere per il settore difesa, per una consulenza pro bono che ha poi portato il colosso a collaborare all’elaborazione di un modello per stimare i costi della ricostruzione e del “ricollocamento” (o meglio la deportazione) dei palestinesi da Gaza, un progetto costato infine il posto ai due dipendenti coinvolti e la dissociazione del Bcg dall’intera iniziativa.
    Intanto, nel novembre dell’anno scorso, Reilly partecipava alla costituzione della Safe Reach Solutions (Srs), registrata nella nota località sciistica di Jackson, nello stato nord-occidentale del Wyoming, da una fiduciaria, la Two Ocean Trust, specializzata in gestione patrimoniale e rappresentata da un avvocato dello studio legale internazionale di Chicago, McDermott Will & Emery. Il legale si chiama James H. Cundiff e solitamente è specializzato in pianificazione fiscale e fondi fiduciari ma, come rivelato dalla testata israeliana Shomrim, si è occupato anche della registrazione della Gaza Humanitarian Foundation in Delaware. Insieme alla UG Solutions, fondata nel gennaio 2022 dall’ex membro delle forze speciali statunitensi Jameson Govoni, la Srs è stata selezionata dalla Ghf come società appaltatrice a Gaza: la prima si occupa del reclutamento, dell’equipaggiamento e del mantenimento del personale di sicurezza e la seconda di pianificare le operazioni e la logistica per proteggere i carichi e i centri di smistamento a Gaza. Le due aziende però, secondo l’inchiesta di Shomrim, sembrano operare come una sola, almeno nelle operazioni di reclutamento, rispondendo l’una per l’altra alle richieste di informazioni degli aspiranti contractor. L’operazione comunque non coinvolge soltanto ex militari, anche se non è semplice capire chi tiri davvero le fila.

    Manager e contractor
    L’organigramma fornito ai media dalla Ghf si è fatto piuttosto confuso. L’ex direttore esecutivo e cecchino dei Marines decorato in Iraq e Afghanistan nonché fondatore della società per la gestione di aiuti umanitari Team Rubicon, Jake Wood, si è dimesso dopo pochi mesi, spiegando che «non è possibile attuare il piano (della Ghf, ndr) nel rigoroso rispetto dei principi di umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza». Poco dopo anche il capo delle operazioni David Burke ha lasciato la fondazione mentre David Beasley, l’ex direttore del World Food Programme (Wfp) a cui era stato proposto di entrare nel board dell’ong, ha rifiutato l’offerta. Nate Mook invece, l’ex amministratore delegato dell’ong statunitense World Central Kitchen indicato inizialmente come membro del direttivo della Ghf, ha smentito di aver mai collaborato con il gruppo.
    Il presidente almeno è noto: secondo i documenti depositati dalla fondazione in Svizzera si tratta di David Papazian, ex amministratore delegato dell’Armenian National Interests Fund e attuale capo del consiglio di amministrazione della compagnia aerea low-cost armena Fly Arna. Malgrado i titoli altisonanti non sembra un grande amministratore visti i magri risultati raggiunti finora: cacciato nel gennaio dell’anno scorso dal fondo armeno per una serie di scandali, sotto la sua guida il governo di Yerevan ha anche sospeso la licenza alla compagnia aerea. Il resto della squadra, al contrario, è composto da un nutrito gruppo di ex funzionari, militari, legali e dirigenti d’azienda statunitensi: dal capo missione John Acree, ex dirigente dell’Office of Foreign Disaster Assistance dell’Usaid; a Raisa Sheynberg, vicedirettrice del dipartimento Affari governativi di Mastercard; a Jonathan Foster, fondatore e amministratore delegato della società di investimento Current Capital; all’avvocato d’affari Loik Henderson, che insieme a Papazian risulta membro della fondazione; all’ex direttore delle operazioni regionali presso il dipartimento per la Sicurezza e la Protezione delle Nazioni Unite, Bill Miller; e al generale Mark Schwartz, ex coordinatore della sicurezza statunitense per le relazioni tra Israele e l’Autorità nazionale palestinese (Anp) nonché ex comandante del Combined Security Transition Command in Afghanistan, dove supervisionò l’addestramento delle forze di sicurezza di Kabul prima del ritorno al potere dei talebani. Ma la figura più emblematica è il presidente esecutivo della fondazione.

    “L’uomo” di Trump
    Il reverendo Johnnie Moore Jr., che ha preso il posto di Wood, è stato infatti consigliere della campagna per la rielezione di Donald Trump alla Casa bianca. Pastore evangelico e uomo d’affari, i suoi rapporti con l’attuale presidente degli Stati Uniti risalgono al 2016, quando Moore entrò a far parte del consiglio consultivo evangelico di Trump. Allora il fondatore della società di consulenza Kairos company partecipava regolarmente alle riunioni di preghiera alla Casa Bianca. Membro del consiglio di amministrazione dell’International Fellowship of Christians and Jews (Ifcj), un’organizzazione senza scopo di lucro con sede negli Stati Uniti dedita a promuovere l’immigrazione ebraica in Israele (aliyah) e a fornire aiuti umanitari a Tel Aviv, il reverendo è stato nominato due volte da Trump tra i nove commissari del Comitato statunitense per la libertà religiosa internazionale, mantenendo il proprio incarico anche durante la presidenza Biden.
    Figura ben conosciuta nel Golfo e nel resto della regione, dove prima si è impegnato per l’emigrazione delle minoranze cristiane durante l’ascesa del sedicente Stato islamico (Isis) e poi si è fatto promotore sia degli Accordi di Abramo per la normalizzazione delle relazioni tra i Paesi arabi e Israele sia della Dichiarazione del Regno del Bahrein che riprende il Documento sulla Fratellanza umana firmato nel 2019 da Papa Francesco e dal Grande Imam della Moschea di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti. In più occasioni poi, durante i suoi viaggi nell’area, Moore è stato ricevuto dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, dal presidente egiziano Abdel Fatah al-Sisi, dal re di Giordania Abdullah II e dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Dopo gli attentati di Hamas e della Jihad islamica del 7 ottobre 2023, il reverendo si è persino recato in visita al confine tra Gaza e Israele, elogiando pubblicamente sui social l’operato delle forze armate dello Stato ebraico.
    Membro del comitato consultivo per il Medio Oriente dell’Anti-Defamation League, un’organizzazione non governativa internazionale ebraica con sede a New York impegnata a «combattere l’antisemitismo» ma accusata dal filosofo Noam Chomsky di «essere diventata solo una sostenitrice della politica israeliana», il pastore evangelico ha più volte ribadito che «l’antisionismo è antisemitismo», confondendo la legittima critica alle politiche israeliane con l’incitamento all’odio. D’altronde Moore ha apertamente sostenuto il cosiddetto “Piano Riviera” di Trump per Gaza, che prevede l’espulsione della popolazione palestinese dalla Striscia. «Gli Stati Uniti si assumeranno la piena responsabilità del futuro di Gaza», scrisse nel febbraio scorso sui social. La fondazione che presiede potrebbe costituire il primo passo.

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