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    La partita a scacchi per la successione di Theresa May

    Theresa May annuncia le sue dimissioni in lacrime

    Una delle caratteristiche storiche della leadership dei Tories è che il favorito non vince quasi mai. La competizione per Downing Street e le mosse del risiko interno, perché Theresa May è andata via ma la (non) Brexit rimane

    Di Maurizio Carta
    Pubblicato il 25 Mag. 2019 alle 12:03 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 19:51

    “Strong and stable”, “Brexit means Brexit”, “No Deal is better then a “Bad Deal”. Era partita con questi slogan Theresa Mary Brasier, meglio nota come Theresa May, per via del cognome di suo marito Philip.

    La seconda donna nella storia britannica a ricoprire la carica più alta dopo il Monarca ha lasciato in lacrime il leggio dal quale, per l’ultima volta, ha annunciato l’addio. Nessuno slogan è divenuto realtà.

    Theresa May è stata costretta a uscire di scena dopo che il suo governo si è ribellato ai suoi piani per offrire concessioni ai laburisti su un’unione doganale e persino sulla possibilità di un secondo referendum nel suo disegno di legge Brexit. Quello bocciato per tre volte in Parlamento e che lei stessa voleva proporre cocciutamente per la quarta.

    La sorpresa non è che il primo ministro se ne sia andato, ma che ci sia voluto così tanto tempo perché ciò accadesse.

    È sempre difficile per i componenti del governo rovesciare i primi ministri, soprattutto perché la maggior parte dei potenziali successori sono nello stesso governo e nessuno vuole danneggiare la propria  possibilità di prendere il timone, apparendo come un sabotatore interno e traditore per ambizione personale. In questo caso, tuttavia, i rischi del non fare nulla erano maggiori. Si sarebbe protratta una vera e propria agonia.

    May rimarrà leader conservatore fino al 7 giugno e come primo ministro fino a quando il suo sostituto sarà al suo posto, probabilmente a metà luglio, o anche a settembre (ma non ditelo ai conservatori).

    Ma la sua autorità è andata via davanti a quel leggio che ha lasciato in lacrime. Da questo momento in poi, è solo un primo ministro ad interim.

    Come funziona il processo di successione

    I conservatori usano un metodo composto da due fasi per scegliere il loro leader, con la partecipazione sia dei parlamentari che dei singoli membri del partito.

    Nella prima fase, i parlamentari conservatori prendono parte a una serie di votazioni segrete, votando su chiunque si sia presentato per la candidatura. Ogni parlamentare può votare un candidato per ogni ballottaggio e il candidato che ottiene il minor numero di voti viene eliminato. I candidati possono ovviamente anche ritirarsi da soli in qualsiasi momento.

    Le votazioni fra i parlamentari continuano in questo modo, con la scomparsa del candidato meno popolare, fino a quando rimangono solo due candidati. Questi due poi vanno al ballottaggio che viene condotto fra i membri del partito conservatore, al momento poco più di 120mila iscritti.

    Le votazioni parlamentari possono essere superate abbastanza rapidamente, entro un paio di settimane, ma il voto di tutti i membri (i tesserati del partito per intenderci) potrebbe richiedere diverse settimane, a seconda del calendario stabilito dal partito.

    La partita a scacchi per piazzare il proprio candidato

    Questo sistema crea opportunità e incentivi per la strategia da parte dei candidati alla leadership e dei loro sostenitori e avversari. Vi è una vasta gamma di opinioni sulla Brexit all’interno del partito conservatore, che include i seguaci e i sostenitori della “Soft” Brexit nonché gli “hard” Brexiteers, ma nessun singolo gruppo costituisce la maggioranza.

    I Soft erano i Remaniners di una volta e spingono per rimanere fortemente connessi con il sistema comunitario europeo. Gli “Hard” sono i Leavers e se dovesse essere necessario l’abbandono senza accordo, sono pronti a farlo (anche con piacere).

    Ovviamente il vincitore, nuovo leader conservatore e quindi Premier, deve essere in grado poi di comandare la maggioranza in Parlamento possedendo i numeri.

    La preoccupazione per i candidati della fazione Brexiteer è che i loro colleghi parlamentari “Eurofili” possano cercare di impedire loro di finire nelle prime due posizioni nel ballottaggio parlamentare finale. E viceversa.

    Ciò potrebbe significare che i sostenitori ortodossi della Brexit soft si stringono tutti attorno a un loro candidato. Così come faranno gli esponenti della “Soft” Brexit. Tutte mosse strategiche e calcolate in quella che è una vera e propria partita a scacchi.

    I cavalli in corsa e il dubbio Johnson

    È anche superfluo ricordarlo, ma Boris Johnson è attualmente il favorito, basando la propria forza sul sostegno della base del partito. Se raggiungesse la finale a due attraverso le votazioni dei parlamentari potrebbe sentirsi sicuro per via delle credenziali pro-Brexit. Esattamente, potrebbe, il condizionale appare obbligatorio perché tra i suoi colleghi c’è molta diffidenza .

    Alcuni hanno già indicato che lascerebbero il partito se lui, il biondo ex sindaco di Londra, dovesse diventare primo ministro.

    Potrebbero quindi essere motivati a impedire che Johnson finisca più in alto del terzo posto, osservando l’evolversi del “conclave”  e facendo conlfuire i loro voti tra due rivali che potrebbero batterlo.

    Il dilemma di Johnson spiega una delle storie più strane che comunque terranno banco dall’inizio alla fine della competizione.

    Sarebbe, tuttavia, pericoloso per i Remainers impedire che qualsiasi Brexiteer arrivi al ballottaggio finale perché potrebbe creare una rivolta alla base del partito il non avere un Brexiter in finale.

    Il rischio, d’altronde, è stato già corso in passato, con una vera e propria emorragia di voti che dai conservatori è finita nelle grinfie Nigel Farage.

    Questa volta, però, metterebbe direttamente in pericolo l’esistenza stessa del partito conservatore.

    La fazione della “soft” Brexit del partito potrà comunque puntare su ottimi candidati, tra cui Jeremy Hunt, attuale Ministro degli Esteri, e Sajid Javid, Ministro dell’Interno. Senza contare poi le solite sorprese.

    I favoriti non vincono mai

    Una delle caratteristiche storiche delle leadership dei Tories è che il favorito non vince quasi mai. Margaret Thatcher nel 1975, John Major nel 1990, William Hague nel 1997, Iain Duncan Smith nel 2001 e David Cameron nel 2005  sono  tutti “spuntati” dalle retrovie, prendendo la rincorsa rispetto ai rivali per diventare inquilini del N°10 di Downing Street.

    La stessa Theresa May non era la favorita del 2016, quando ha battuto Andrea Leadsom ritiratasi dalla corsa finale. Il favorito era infatti, anche allora, Boris Johnson,  la cui candidatura è saltata dopo che Michael Gove, il suo più autorevole sostenitore e attuale Ministro per l’Ambiente, ha ritirato il suo sostegno.

    Insomma, la strada è in salita per qualsiasi candidato, che sia esso per la rottura netta senza accordo che per tentare di fare passare in parlamento quello che a Theresa May hanno respinto per tre volte. Trovare l’unità non sarà semplice, anche perché la guerra civile del partito all’interno dei Tories è in pieno corso.

    Fra i tanti dubbi, affiorano solo poche certezze. La prima è che a tre anni dal voto referendario si parte ancora, calcisticamente, dalla rimessa dal fondo e con la Brexit fissata al vicinissimo 31 ottobre. Theresa May è andata via, ma il nodo Brexit rimane irrisolto.

    La seconda è invece una legge empirica della politica.

    Si può vincere una competizione proponendo un’agenda politica. Ma poi, spesso, diventa carta straccia. L’agenda la scrive la realtà.

     

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