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    Brexit, la questione catalana e le elezioni spagnole

    Il commento di Cecilia Vergnano, ricercatrice dell'Universidad de Barcelona, sulle elezioni spagnole viste dalla prospettiva di Barcellona

    Di TPI
    Pubblicato il 27 Giu. 2016 alle 09:09 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 21:10

    I commenti che iniziano a girare su Twitter nella serata di domenica, giorno delle elezioni spagnolo, introducendo le parole chiave “Catalunya” ed “elecciones”, danno chiaramente a intendere la contrarietà dei catalani davanti alla vittoria del Partito popolare. “Qualcuno si chiede il perché del movimento indipendentista in Catalunya. Basta vedere i risultati delle elezioni per avere la risposta” è uno dei commenti. E a ruota: “L’unica cosa buona delle elezioni spagnole è che dimostrano che in Euskadi e Catalunya siamo diversi”, “Euskadi e Catalunya non sono Spagna. Guardando il risultato delle elezioni non c’è margine di discussione”.

    E in effetti davanti a una cartina della Spagna completamente azzurra (il colore simbolo del PP), attira particolarmente l’attenzione la presenza di macchie viola (il colore di Podemos) in corrispondenza delle province catalane e basche.

    Già ieri gli esperti evidenziavano la possibilità di un “effetto Brexit” sull’elettorato spagnolo. I voti degli spagnoli, frammentati e dispersi tra quattro formazioni politiche principali (come è emerso dalle elezioni del 20 dicembre 2015, dalle quali non si è riuscito a formare nessun governo) si sarebbero “riorientati” verso la formazione politica che più delle altre ha saputo trasmettere un messaggio di stabilità.

    Fino a pochi giorni fa le elezioni generali si presentavano molto polarizzate tra due opzioni: le politiche del partito popolare, promotore di “stabilità”, e la neopolitica di Unidos Podemos, favorevole all’aumento della spesa pubblica per politiche sociali e alla celebrazione di un referendum per l’indipendenza della Catalunya.

    Il terremoto Brexit potrebbe aver rappresentato l’ultimo “argomento” della campagna elettorale necessario per convincere gli elettori della necessità di porre freno a qualsiasi spinta indipendentista dentro al paese, viste le conseguenze catastrofiche di queste di situazioni di instabilità dal punto di vista finanziario internazionale.

    La vittoria dei popolari di Rajoy è ovviamente anche il prodotto di altri fattori: in primo luogo, la delusione degli elettori rispetto alla sinistra “tradizionale” del partito socialista, che negli ultimi anni si è fatta fautrice, così come tutti i grandi partiti europei di centrosinistra, di politiche di stampo chiaramente neoliberista, in materia di lavoro e di tagli alla spesa pubblica, rinunciando alla sua vocazione sociale.

    Non è un caso che il Psoe sia precipitato drammaticamente in basso, con poco più del 20 per cento dei voti, realizzando un sostanziale pareggio con una nuova formazione politica emersa praticamente dal nulla, Podemos, diretta erede del movimento dalle piazze spagnole “indignate” del 2011, che ha incontrato grande consenso tra molti elettori tradizionalmente di sinistra.

    Ma mentre la neopolitica di Podemos ha incontrato l’entusiasmo di molti elettori desiderosi di un cambio, soprattutto in Catalunya (dove un partito “gemello”, Barcelona en Comú, ha vinto le ultime elezioni municipali barcellonesi), la paura di qualsiasi tipo di spinta secessionista pare aver determinato fortemente le scelte del resto dell’elettorato spagnolo.

    Davanti alla minaccia dell’instabilità dei mercati finanziari, sotto gli occhi di tutti proprio in questi giorni dopo il referendum per il leave nel Regno Unito, il partito popolare pare aver riscosso più successo tra gli elettori, nonostante gli scandali legati ai casi di corruzione all’interno del partito, e anche nonostante il recentissimo Diazgate che ha coinvolto il Ministro dell’Interno, scoperto a “cospirare” false accuse di corruzione (dei veri e propri montaggi) contro esponenti della politica catalana.

    Le recenti elezioni amministrative italiane, il referendum britannico e le elezioni spagnole paiono indicare su differenti livelli, locale e nazionale, l’esistenza di una frattura profonda tra centro e periferie. Nel caso spagnolo, però, il centro ha assunto dimensioni dilaganti, lasciando fuori dall’uniformità dei risultati elettorali solo pochi “isolati” di periferia: Catalunya e Euskadi, in cui ha vinto una formazione politica radicalmente opposta ai popolari.

    La vecchia politica conservatrice contro la nuova politica di stampo sociale. È normale pensare, in questo contesto, che la volontà di indipendenza si farà sempre più forte, almeno in Catalunya, già nel pieno del suo autodichiarato “procés constituent”.

    *A cura di Cecilia Vergnano, ricercatrice dell’Universidad de Barcelona 

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