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    Cosa ha detto Aung San Suu Kyi nel suo primo discorso sulla crisi dei rohingya

    La leader birmana Aung San Suu Kyi dopo la fine del discorso del 19 settembre al parlamento. Credit: Soe Zeya Tun

    La leader birmana ha detto che il suo governo non teme lo “scrutinio internazionale” e che nello stato di Rakhine non ci sono stati scontri dal 5 settembre. Ha assicurato inoltre che a tutti i rifugiati rohingya fuggiti sarà permesso di tornare nel paese

    Di Anna Ditta
    Pubblicato il 20 Set. 2017 alle 09:37 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 19:24

    Le leader birmana Aung San Suu Kyi ha parlato per la prima volta al paese dopo l’inizio della crisi dei rohingya ad agosto 2017, che ha portato oltre 400mila membri della minoranza musulmana a lasciare il paese attraversando il confine con il Bangladesh.

    Rivolgendosi al parlamento birmano, martedì 19 settembre, Suu Kyi ha detto che il suo governo non teme lo “scrutinio internazionale” sulla crisi dei rohingya. Negli scorsi giorni la vincitrice del premio Nobel per la pace ha ricevuto forti critiche a causa del suo silenzio sulle presunte violazioni dei diritti umani in Birmania.

    Suu Kyi ha negato che ci siano stati scontri o “operazioni di pulizia” nello stato birmano di Rakhine dal 5 settembre. Ha dichiarato inoltre di soffrire profondamente per la sofferenza di “tutte le persone” nel conflitto e che la Birmania “si sta impegnando per una soluzione sostenibile (…) per tutte le comunità in questo stato”.

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    Suu Kyi ha detto inoltre che:

    • la maggior parte dei musulmani non è fuggita e ha deciso di rimanere nello stato di Rakhine, elemento che indicherebbe, secondo lei, che la situazione non è così difficile.

    • negli ultimi anni il governo birmano ha cercato di migliorare le condizioni di vita di tutti gli abitanti dello stato, inclusa la minoranza musulmana.

    • che a tutti i rifugiati sarà permesso di tornare dopo una verifica sul loro status.

    La leader birmana ha deciso di non partecipare all’Assemblea generale delle Nazioni Unite che si sta tenendo questa settimana, ma sostiene di volere comunque che la comunità internazionale sappia cosa era stato fatto dal suo governo.

    Alcune ore dopo il suo discorso, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra ha chiesto l’accesso completo alla regione, in modo da poter verificare la situazione “con i propri occhi”, come riporta la Bbc.

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    Dopo il suo discorso, molti leader internazionali, tra cui il segretario generale Onu Antonio Guterres, il presidente francese Emmanuel Macron, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il segretario di stato statunitense Rex Tillerson, hanno espresso disappunto per la presa di posizione di Suu Kyi.

    Nei giorni scorsi l’ong Amnesty International ha denunciato lo svolgimento di una campagna coordinata di incendi sistematici dei villaggi rohingya nello stato di Rakhine, dove dal 25 agosto sono riprese le violenze tra le forze di sicurezza birmane e alcuni miliziani del gruppo paramilitare Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), formazione paramilitare vicina alla comunità rohingya.

    Gli scontri hanno causato centinaia di morti nello stato di Rakhine e hanno dato inizio a un esodo che ha portato finora 400mila rohingya ad attraversare il confine con il Bangladesh.

    “Siamo giunti alla conclusione che si tratta di una campagna sistematica e pianificata con l’obiettivo di pulizia etnica dei rohingya che per il momento è riuscita per metà”, ha detto a TPI Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, in una recente intervista. “Il numero delle persone che hanno attraversato il confine con il Bangladesh è arrivato a 470mila, di cui 370mila dal 25 agosto al 12 settembre (gli altri 100mila circa si erano già recati in Bangladesh tra il 2016 e agosto 2017)”.

    “Considerato che i rohingya sono poco più di un milione, è difficile chiamarlo in un modo diverso da pulizia etnica”, ha aggiunto Noury.

    Secondo un altro rapporto di Amnesty, inoltre, al confine tra i due paesi sarebbero state utilizzate mine antipersona, posizionate dall’esercito birmano per evitare il rientro dei membri della minoranza musulmana.

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