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    Perché il premio Nobel ad Aung San Suu Kyi non può essere revocato

    La leader birmana Aung San Suu Kyi. Credit: Afp

    La leader birmana ha negato ripetutamente le violenze dell'esercito nei confronti della minoranza musulmana dei rohingya. Per questo le sono state ritirate 7 onorificenze

    Di Anna Ditta
    Pubblicato il 30 Ago. 2018 alle 13:47 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 19:23
    Aung San Suu Kyi nobel

    Dopo che le Nazioni Unite hanno criticato Aung San Suu Kyi a causa del suo mancato intervento per risolvere la crisi dei rohingya in Birmania, si è parlato di un possibile ritiro del premio Nobel per la pace che la leader birmana ha vinto nel 1991.

    Per la sua scelta di non riconoscere le violenze dell’esercito nei confronti dei rohingya, ad Aung San Suu Kyi sono già state revocate sette onorificenze, incluso il premio Elie Wiesel che le era stato assegnato dal Museo dell’Olocausto statunitense nel 2012.

    Tuttavia, Olav Njolstad, il presidente del Comitato per il Nobel norvegese che ogni anno assegna il premio Nobel per la pace, dopo essere stato interpellato dalla Cnn, ha detto che nello statuto del comitato non esistono regole che prevedano il ritiro del premio una volta assegnato.

    Per questo non sarà possibile revocare il premio ad Aung San Suu Kyi.

    Njolstad ha anche dichiarato: “Continuiamo a chiedere a tutti i soggetti coinvolti in Myanmar di alleviare la sofferenza dei Rohingya e cessare la persecuzione e la repressione”.

    Il 30 agosto l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani Zeid Ra’ad al Hussein ha affermato che il consigliere di stato e ministro per gli Affari esteri della Birmania  Aung San Suu Kyi , leader de facto del paese, avrebbe dovuto dimettersi per la violenta campagna militare contro la minoranza musulmana dei Rohingya portata avanti dall’esercito del Myanmar.

    La leader birmana ha imputato le violenze al terrorismo, non ai militari, e ha criticato la comunità internazionale per l’attenzione al tema.

    Qui un profilo di Aung San Suu Kyi.

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