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    “I talebani ci danno la caccia per ucciderci”: storie di chi aveva scelto la democrazia in Afghanistan

    Rahel, attivista e giornalista afghana
    Di Elisa Serafini
    Pubblicato il 19 Ago. 2021 alle 12:30 Aggiornato il 19 Ago. 2021 alle 12:30

    “Lavoro in banca, vogliono ucciderci perché abbiamo applicato interessi, contrari alla legge islamica”, racconta a TPI Arash (nome di fantasia per proteggere la sua identità), due bambini, una moglie. “Lavoravo in una prigione, ora cercano tutti i dipendenti per vendicarsi dei talebani che avevamo imprigionato”, spiega Gul, che ha soli 22 anni.

    Tra chi chiede un visto di emergenza ci sono storie di persone comuni, nate per caso nella parte più difficile del mondo, e persone famose, come Fawzia Koofi, ex speaker della Camera, leader del movimento politico progressista Movement for change of Afghanistan. Koofi e tutta la sua famiglia sono in pericolo e lo sono anche i suoi collaboratori: “Dopo vent’anni di collaborazione con americani, occidentali per i diritti civili, temiamo per la nostra vita”, raccontano al nostro giornale.

    Ci sono le storie delle donne dell’Afghanistan, penalizzate dall’essere attiviste, e dall’essere donne. Fatima si è candidata alle elezioni politiche nel 2018, ha dedicato la vita al sostegno delle donne. Viveva nel Takhar, una provincia nel nord-est dell’Afghanistan, poi è stata costretta a scappare a Kabul.

    “Spero di non aver fatto la scelta sbagliata”, dice a TPI. “Oggi devo scegliere tra vita e morte, sono l’unica persone che lavora in una famiglia di 8 persone. Per questo ho lasciato la mia città e ora devo lasciare il mio Paese, anche se va contro i miei ideali”.

    E poi c’è Rahel, attivista e giornalista poco più che ventenne, che già avevamo intervistato nel 2020. Già allora aveva lanciato l’allarme: arriveranno i talebani, e il loro obiettivo è creare una dittatura islamista. Adesso il sogno di Rahel è di arrivare in Italia, dove la aspetta un Comune ligure che le ha messo a disposizione un alloggio.

    Rahel è stata inserita nell’elenco dei cittadini afghani a rischio gestito dall’Unità di Crisi della Farnesina, l’ente che in queste ore si sta occupando della protezione di connazionali, collaboratori e di alcuni cittadini afghani politicamente esposti.

    Nelle chat online gli attivisti si scambiano informazioni su come poter fuggire dal nuovo regime, in attesa che vengano definiti nuovi processi di trasferimento. Il passaporto afghano consente l’accesso senza visto in pochissimi Paesi (ad esempio Haiti e la Micronesia) e l’aeroporto di Kabul, pur essendo sorvegliato da migliaia di militari americani, è quasi inaccessibile.

    Solo ieri, mercoledì 18 agosto 2021, un aereo olandese è ripartito da Kabul vuoto nel tentativo fallito di recuperare 35 persone, che non sono riuscite ad accedere all’aeroporto.

    Spagna, Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Canada sono stati i primi Paesi a sviluppare una procedura online per il trasferimento di cittadini afghani che avevano collaborato con governi occidentali. Il Canada ha aperto agli attivisti politici, la Francia si sta concentrando sui giornalisti, l’India ha aperto un iter per concedere visti gratuiti di sei mesi a chiunque desideri lasciare il Paese.

    Il diritto di asilo è previsto dal diritto internazionale, ma non sempre è applicato nei fatti. Tra i fallimenti più lampanti nella storia dei riconoscimenti mancati o insufficienti durante crisi internazionali c’è solo l’imbarazzo della scelta: Yemen, Siria, Libia.

    Non tutti i cittadini afghani potranno contare sul riconoscimento dei requisiti del diritto di asilo, specialmente se si andrà verso un governo di transizione che potrebbe essere riconosciuto dalle forze occidentali. I riflettori continuano a rimanere accessi su Kabul, mentre oltre 10.000 soldati delle forze occidentali (principalmente Stati Uniti e Regno Unito) continuano a presidiare la capitale.

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