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    L’Emirato del silenzio: così i talebani tornati al potere in Afghanistan provano a uscire dall’isolamento

    Credit: Agf

    A quattro anni dal ritiro di Usa e Nato, i talebani governano l’Afghanistan con il terrore ma solo la Russia li riconosce. Ora, tra terremoti, rimpatri dei rifugiati e diplomazia clandestina, cercano di ottenere legittimità. Mentre il mondo guarda altrove

    Di Andrea Lanzetta
    Pubblicato il 12 Set. 2025 alle 15:32 Aggiornato il 7 Ott. 2025 alle 15:12

    L’ultima catastrofe sismica ha brevemente riacceso i riflettori sull’Afghanistan dopo oltre quattro anni dal ritorno al potere dei talebani, anni in cui altri conflitti hanno fatto calare il silenzio sul Paese sia negli Stati Uniti che in Europa, dopo oltre un ventennio di guerra al terrorismo. Eppure le migliaia di vittime e feriti del terremoto di magnitudo 6 sulla scala Richter che nella notte tra il 31 agosto e il 1° settembre ha raso al suolo la provincia orientale di Kunar, dove solo due edifici su cento sono rimasti intatti, rappresentano soltanto l’ennesima tragedia afghana, di cui però l’attuale regime di Kabul potrebbe approfittare per ottenere, tramite una necessaria collaborazione internazionale in materia di aiuti, il tanto agognato riconoscimento.

    Leadership fondamentalista
    Dopo la fuga da Kabul delle truppe statunitensi e della Nato, i talebani hanno infatti ricostituito l’Emirato Islamico dell’Afghanistan che, prima dell’invasione seguita agli attentati dell’11 settembre 2001, governava il Paese dal 1996. Controllando praticamente tutto il territorio afghano, anche se non riconosciuta da quasi nessuno Stato estero, rappresenta l’autorità nazionale de facto, con un governo ad interim formato quattro anni fa da una trentina di ministri, prevalentemente talebani di etnia pashtun, di cui oltre una decina soggetti a sanzioni delle Nazioni Unite e altri accusati di far parte di organizzazioni terroristiche. Molti appartengono alla leadership storica dei talebani e almeno cinque sono anche stati detenuti a Guantanamo e in seguito rilasciati nel 2014 in cambio della liberazione di un soldato americano sequestrato in Afghanistan.
    Al vertice dell’Emirato c’è il mullah Haibatullah Akhundzada, il cosiddetto “Emiro dei Fedeli”, che guida il consiglio supremo dei talebani, la Rahbari Shura, dal 2016 dopo l’uccisione in un raid aereo statunitense in Pakistan del suo predecessore Akhtar Mohammad Mansour, a sua volta salito al potere tre anni prima a seguito della morte del primo leader del movimento, il famigerato mullah Mohammed Omar. Poco avvezzo ad apparire in pubblico, Akhundzada ha combattuto tra le fila dei mujaheddin ai tempi della resistenza afghana contro i sovietici e appena raggiunto il vertice del movimento ha ricevuto il giuramento di fedeltà dall’allora leader di al-Qaeda Ayman al Zawahiri mentre l’anno successivo suo figlio Hafiz Abdul Rahman si è suicidato in un attacco terroristico condotto contro le forze regolari afghane nella provincia di Helmand. Ma il suo profilo si addice poco a un miliziano: nominato giudice durante il primo regime talebano, oggi governa a colpi di decreti religiosi (fatwa) dalla sua residenza a Kandahar.

    Figure chiave
    Chi esercita concretamente il potere, invece, è il mullah Mohammad Hassan Akhund, di fatto primo ministro dell’Emirato ed ex collaboratore del mullah Omar, che nel 1996 lo nominò vicepremier del suo secondo e fedelissimo Mohammad Rabbani (morto di cancro in Pakistan nel 2001) e due anni dopo ministro degli Esteri. Sanzionato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu già nel gennaio 2001, Akhund era diventato famoso tre anni prima, quando aveva annunciato il rifiuto del regime talebano di espellere Osama bin Laden dall’Afghanistan dopo gli attentati di al-Qaeda alle ambasciate statunitensi di Dar es Salaam, in Tanzania, e Nairobi, in Kenya, costati la vita a 224 persone. Il suo vice è Abdul Ghani Baradar, co-fondatore dei talebani con il mullah Omar. Rilasciato nel 2018 dopo otto anni di prigionia in un carcere pakistano grazie all’intervento della prima amministrazione di Donald Trump, Baradar ha da allora guidato la delegazione talebana a Doha, in Qatar, e poi siglato l’accordo che ha portato al ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan. Sanzionato anche lui nel febbraio 2001 dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, è attualmente terzo nella linea di comando insieme al ministro della Difesa, il mullah Mohammad Yaqoub, e al collega agli Interni, Sirajuddin Haqqani.
    Considerato il giovane astro nascente del regime, Yaqoub è il figlio maggiore del mullah Omar nonché il comandante militare del gruppo. Entrato nel consiglio supremo talebano in concomitanza con l’ascesa di Akhundzada, nel 2020, a soli 30 anni, assunse la leadership de facto del movimento quando il sedicente emiro e il suo attuale ministro degli Interni si ammalarono entrambi di Covid-19. Malgrado il suo legame di sangue con il fondatore però, è il suo collega Haqqani, membro di una famiglia di primo piano sia nell’élite terroristica che nella politica afghana, il vero numero tre del regime.
    Figlio del molvì Jalaluddin, uno dei leader della resistenza antisovietica negli anni Ottanta ed ex ministro degli Affari Tribali del regime talebano nonché fondatore della cosiddetta “Rete Haqqani”, oltre a servire nel governo di Kabul, Sirajuddin ha ereditato la leadership dell’organizzazione terroristica creata dal padre, in stretto contatto con al-Qaeda e attiva prevalentemente lungo la linea Durand che separa Afghanistan e Pakistan. Il suo ruolo è così centrale nel regime che l’anno scorso il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha temporaneamente revocato le restrizioni ai suoi spostamenti per consentirgli di incontrare i rappresentanti degli Stati del Golfo ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, e compiere il pellegrinaggio (Hajj) alla Mecca, in Arabia Saudita, mentre a marzo gli Usa hanno revocato la taglia da 10 milioni di dollari imposta sulla sua testa dopo la liberazione di un cittadino americano da una prigione talebana. Sirajuddin appartiene infatti a una dinastia saldamente al potere a Kabul: anche suo zio Khalil al Rahman Haqqani, fratello di Jalaluddin, è infatti stato ministro per i Rifugiati fino allo scorso dicembre, quando un attentatore suicida lo ha ucciso nel suo ufficio nella capitale. Tra i suoi alleati nell’esecutivo talebano figurano poi anche i vertici dell’intelligence del gruppo: Abdul Haq Wasiq, rilasciato dopo otto anni di prigionia a Guantanamo nel 2014 in uno scambio con un ostaggio americano sequestrato dalla sua organizzazione ed ex responsabile dei rapporti con al-Qaeda; e il suo vice Taj Mir Jawad, a capo di una cellula terroristica affiliata alla cosiddetta “Rete Haqqani” attiva nell’area di Kabul durante l’occupazione statunitense. È a queste figure, che si accompagnano a personaggi apparentemente meno impresentabili come il ministro degli Esteri Amir Khan Muttaqi e il portavoce del governo Zabihullah Mujahid, che è affidato l’Afghanistan, dove il regime reprime barbaramente ogni dissenso.

    Clima di paura
    Una volta tornati al potere i talebani hanno infatti sistematicamente revocato ogni provvedimento e politica volta a promuovere e tutelare i diritti civili e umani. Oltre a instaurare un sistema monopartitico di stampo totalitario, allontanando dal potere qualsiasi altro movimento, il leader del gruppo ha più volte ribadito che alla base dell’intero sistema dell’Emirato vi è soltanto la sharia. Pertanto l’obiettivo del governo è l’applicazione e il rispetto della legge islamica e non la tutela dei diritti. Governando per decreto senza stabilire un quadro legale formale, Akhundzada e i suoi hanno volutamente creato un vuoto giuridico, che lascia ampio spazio ai miliziani per impartire punizioni agli oppositori e alle minoranze che non si adeguano, generando così un clima di terrore dovuto all’interpretazione arbitraria degli editti e dei pareri religiosi emanati su ogni aspetto della vita civile. Nel dicembre del 2023, ad esempio, tutte le università e le istituzioni accademiche private afghane ​​ebbero l’ordine di rimuovere dalle loro biblioteche i libri considerati contrari all’interpretazione della scuola hanafita della giurisprudenza islamica. Dal luglio dell’anno scorso invece la cosiddetta “Legge sulla Moralità” impartisce alla popolazione una serie di istruzioni in materia di codici di abbigliamento, applicabili sia agli uomini che alle donne; di segregazione di genere; di celebrazioni liturgiche collettive non musulmane; di musica; e di determinati comportamenti sessuali, tra cui adulterio, «fornicazione», sesso anale e rapporti lesbici. «Minoranze religiose ed etniche, bambini e giovani, persone con disabilità, persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender e di genere diverso, difensori dei diritti umani, operatori sanitari, educatori, giornalisti, giudici, pubblici ministeri, professionisti del diritto, artisti, difensori dei diritti culturali, ex funzionari di sicurezza e governativi», denunciavano l’anno scorso le Nazioni Unite, «sono stati oggetto di gravi e mirate violazioni dei diritti umani da parte dei talebani», compresi «arresti e detenzioni arbitrarie, esecuzioni illegali, sparizioni forzate, violenze sessuali e torture». Almeno 234 persone, secondo l’ultimo rapporto della missione Unama, hanno subito punizioni corporali in pubblico soltanto tra aprile e giugno di quest’anno. Dal ritorno al potere dei talebani poi sono ricominciate anche le esecuzioni pubbliche “legali”: almeno una decina documentate nelle province di Farah, Laghman, Ghazni, Jawzjan, Paktya, Badghis e Nimroz.
    La condizione delle donne soprattutto, sottoposte a un vero e proprio apartheid di genere, è sempre più difficile, tanto che a inizio luglio la Corte penale internazionale ha emesso due mandati di arresto per Akhundzada e per il presidente della Corte suprema talebana, Abdul Hakim Haqqani, con l’accusa di crimine contro l’umanità dovuta a persecuzione di genere. Il regime inoltre continua a escludere e perseguitare i gruppi etnici e religiosi minoritari, come gli hazara, gli sciiti, i sikh e i cristiani. Ma anche la libertà di stampa e di espressione sono state messe in discussione da una serie di rigide norme che limitano le pubblicazioni, tra cui il vago divieto di diffondere qualsiasi contenuto considerato contrario all’Islam, in un Paese in cui si può essere arrestati anche solo per aver ascoltato della musica. 

    Dissenso interno
    Il tutto sempre a discrezione delle autorità perché, come sottolineato dal ministero per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio di Kabul, le «istruzioni» di natura morale impartite alla popolazione hanno «carattere di semplici raccomandazioni». Queste possono anche portare all’arresto e alla tortura, ma non in tutti i casi. Un’incertezza che alimenta un clima di paura, anche interno al movimento. Soltanto a febbraio scorso infatti, dopo aver criticato il bando delle donne dalle scuole secondarie e da ogni istituzione accademica superiore, il vice ministro degli Esteri Mohammad Abbas Stanikzai è dovuto fuggire negli Emirati Arabi Uniti per non essere arrestato come ordinato dal suo leader Akhundzada al capo dell’intelligence Abdul Haq Wasiq. Subito dopo la fuga di Stanikzai, il portavoce talebano Zabihullah Mujahid aveva dovuto riconoscere «l’esistenza di divergenze di opinione» interne al movimento, specie sulla «questione dell’istruzione femminile», ribadendo però che tali divisioni non minacciano «l’unità» del gruppo. Eppure la condizione delle donne non sembra l’unico nodo da sciogliere all’interno dei talebani.
    La Commissione politica del movimento non si riunisce dallo scorso gennaio mentre nel giro di due mesi, tra febbraio e aprile, Akhundzada ha abolito l’Ufficio del vicepremier per gli Affari Politici, sostituito i responsabili di 14 madrase jihadiste in altrettante province e nominato 26 nuovi governatori distrettuali, sette sindaci di altrettanti capoluoghi provinciali, sei capi di dipartimenti locali di polizia e tre direttori delle divisioni territoriali dell’intelligence. Non a caso, a fine marzo, durante il suo sermone per la festività islamica di Eid al-Fitr, il sedicente emiro aveva ribadito la centralità della sua autorità e la necessità di restare fedeli alla leadership del movimento e di rifiutare ogni forma di confronto democratico, attuando invece pienamente la Sharia e in particolare la nuova “Legge sulla Moralità”. L’ordine di stringere ancora di più il cappio intorno al collo degli afghani e di serrare le fila dei miliziani è infatti indispensabile ad Akhundzada per mantenere il potere, visto che la guerra in Afghanistan continua.

    Senza pace
    La repressione ha stroncato l’opposizione, che ormai si limita a singole manifestazioni civili legate per lo più a questioni economiche dovute alla crisi causata dal blocco degli aiuti internazionali, ma la violenza non si ferma. Nel primo semestre dell’anno sono stati infatti almeno una settantina gli attacchi rivendicati dal Fronte di Resistenza Nazionale di Ahmad Massoud, che opera ancora nella Valle del Panjshir, e dal Fronte per la libertà dell’Afghanistan dell’ex capo di stato maggiore  Yasin Zia e dell’attivista e giornalista di etnia hazara Daoud Naji. Anche se, secondo l’ultimo rapporto del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, «le attività dell’opposizione armata non rappresentano una sfida significativa al controllo del territorio nazionale da parte dei talebani», a fine agosto il leader del gruppo fondamentalista in Panjshir, Mohammad Agha Hakim, ha riconosciuto come non meglio identificati «nemici» stiano tentando di unire chi si oppone al regime, affidandosi a «noti speculatori politici» per minare l’unità nazionale, e ha avvisato le potenze vicine che un sostegno esterno a queste forze potrebbe trascinare di nuovo l’Afghanistan nella guerra civile.
    Per contrastare l’opposizione armata, i talebani si affidano sia alle armi lasciate dagli Usa e dalla Nato all’esercito afghano sia a una variegata galassia di organizzazioni terroristiche, compresa al-Qaeda, con cui sono alleati. Ma la minaccia più letale arriva da un altro gruppo fondamentalista: il sedicente Stato Islamico (Isis), il cui ramo Provincia del Khorasan (Iskp) ha provocato almeno una cinquantina di vittime soltanto l’anno scorso in Afghanistan mentre oltre una ventina sono morte a febbraio in altri due attentati rivendicati a Kunduz e Kabul contro il regime. Nessuno di questi gruppi però sembra capace di impensierire davvero il potere talebano.
    La sfida maggiore sembra invece arrivare dall’esterno e in particolare da un ex alleato come il Pakistan. Le scaramucce di confine infatti sono in aumento a causa della rottura del cessate il fuoco con Islamabad da parte del gruppo terroristico Tehrik-e-Taliban (Ttp), che soltanto l’anno scorso, secondo il pakistano Center for Research & Security Studies, ha ucciso oltre 2.500 persone in più di 400 attentati nel Paese. Per tutta risposta, nel primo semestre di quest’anno, quasi una sessantina di miliziani del Ttp, rifugiatisi in Afghanistan, sono stati uccisi dall’esercito pakistano, inasprendo i rapporti con Kabul. È l’isolamento infatti e la mancanza di alleati esterni il vero pericolo per il regime.

    Dialogo sottobanco
    In particolare, le relazioni con il Pakistan, la cui intelligence è stata il principale sponsor storico dei talebani, sono peggiorate negli ultimi due anni da quando Islamabad annunciò l’intenzione di rimpatriare quasi quattro milioni di rifugiati di origini afghane (soltanto quest’anno ne sono stati espulsi almeno 800mila). Un provvedimento poi imitato anche dai vicini Iran (che dall’anno scorso ha espulso oltre un milione di afghani), il cui ministro degli Esteri Abbas Araghchi si è però recato a gennaio a Kabul per la prima volta dal ritorno al potere dei talebani, e Tagikistan, che finora ha rimandato indietro novemila persone.
    Il problema del ritorno dei rifugiati, che rischiano di subire violente persecuzioni, rappresenta però, proprio come l’ultimo devastante terremoto, anche un’opportunità per il regime. Persino Paesi come la Germania infatti, attraverso il ministro degli Interni Alexander Dobrindt, hanno avviato un dialogo con il gruppo, il cui governo è stato finora riconosciuto (a luglio) soltanto dalla Russia, per concludere i rimpatri. Non solo: malgrado molte ambasciate afghane non rispondano a Kabul, i talebani mantengono contatti continui con almeno altri 11 Paesi, tra cui Uzbekistan, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Qatar e India, il cui sottosegretario al ministero degli Esteri Vikram Misri ha incontrato a gennaio a Dubai il capo della diplomazia del regime Amir Khan Muttaqi, che ha definito New Delhi un «partner regionale significativo». Intanto anche la Cina sta rafforzando i suoi legami economici e diplomatici con il gruppo: da dicembre infatti Pechino, che per prima inviò un ambasciatore in Afghanistan dopo la caduta di Kabul nel 2021, ha abrogato i dazi doganali sulle importazioni dall’Afghanistan. Il regime infatti non intende chiudersi al mondo, anzi. L’azienda locale Da Afghanistan Breshna Sherkat (Dabs) ha organizzato in settimana a Kabul una conferenza energetica internazionale a cui ha invitato i rappresentanti di 22 Paesi del mondo.
    Tuttavia il dialogo avviene ancora sottobanco, tanto che la dichiarazione congiunta pubblicata dai membri della Shanghai Cooperation Organization (Sco) riunitisi all’inizio del mese a Tianjin, in Cina, ha ribadito che «l’unica strada per raggiungere una pace e una stabilità durature» per un «Afghanistan indipendente, neutrale e pacifico, libero da terrorismo, guerra e narcotici» è «la formazione di un governo inclusivo». Una premessa rifiutata da Kabul, da dove più volte si è ribadito come l’attuale governo sia composto da rappresentanti di «tutti i segmenti della società». Più che altro da tutte le anime dei talebani, che considerano se stessi l’Afghanistan.

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