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    Il flop degli Accordi di Abramo: affari d’oro sulla pelle dei palestinesi e niente pace

    Credit: Ariel Schalit – AP

    I patti promettevano di fermare i conflitti tra arabi e Israele ma per due anni si è discusso solo di nuove opportunità economiche. Mentre nei territori occupati si continua a morire e nessun passo avanti è stato registrato nell’attenuazione delle ostilità. Si sono soltanto moltiplicati gli scambi commerciali e le intese militari

    Di Andrea Lanzetta
    Pubblicato il 29 Gen. 2023 alle 07:00

    Abu Dhabi, Emirati Arabi. È una calda mattina di gennaio e 150 funzionari e diplomatici di sei Paesi si accalcano in un grande salone per una foto di rito. Si riuniscono per la prima volta tutti insieme e nonostante l’incontro sia cominciato solo da cinque minuti, secondo uno dei capi delle delegazioni presenti, quello è il momento più importante. Per l’ormai ex direttore generale del ministero degli Esteri di Israele, Alon Ushpiz, quei brevi istanti del 9 gennaio sono stati infatti fondamentali per «pompare benzina nel motore di un nuovo meccanismo regionale» che, almeno nelle intenzioni iniziali, doveva portare la pace in Medio Oriente.

    Era infatti la prima volta, da quando è stato istituito nel marzo dello scorso anno, che il Forum del Negev riuniva i suoi gruppi di lavoro divisi per competenza: sicurezza alimentare e idrica, energie pulite, turismo, sanità, istruzione e sicurezza regionale. Costituita sullo sfondo degli Accordi di Abramo per la normalizzazione delle relazioni tra Israele e quattro Stati arabi, ufficialmente questa piattaforma di cooperazione mira a «promuovere la crescita, la stabilità e la prosperità; sostenere gli interessi di tutti i Paesi della regione e promuovere lo sviluppo sostenibile, fornendo soluzioni alle sfide esistenti al fine di raggiungere un futuro migliore per le prossime generazioni». Anche se la promessa iniziale era un’altra.
    Annunciati dall’allora amministrazione statunitense Trump come uno «storico accordo di pace», a oltre due anni dalla prima firma, avvenuta nel settembre 2020, l’impegno assicurato dalle intese tra lo Stato ebraico, gli Emirati Arabi, il Bahrein, il Marocco e il Sudan è stato – finora – del tutto disatteso, visto che i patti sembrano avere tutt’altro scopo.

    Nessun passo avanti è stato ancora registrato nell’attenuazione del conflitto israelo-palestinese ma si sono moltiplicate le opportunità di concludere nuovi affari e di assicurare una cooperazione militare tra i Paesi membri.

    Assenti eccellenti
    Il capo della delegazione israeliana è stato chiaro. Il Forum del Negev, ha spiegato Ushpiz al portale Axios, riguarda il rafforzamento dell’integrazione regionale e il miglioramento della vita delle persone. «Non vogliamo che si impegni in discussioni politiche sulla questione palestinese».

    D’altra parte i palestinesi non sono mai stati nemmeno invitati. Il primo storico vertice del Forum si è svolto nel kibbutz di Sde Boker, in Israele, dal 27 al 28 marzo 2022, con la partecipazione del ministro degli Esteri dello Stato ebraico, dei suoi omologhi di Egitto, Emirati Arabi, Bahrein e Marocco e del segretario di Stato statunitense, Tony Blinken. Una seconda riunione, a livello di funzionari ministeriali, è avvenuta il 27 giugno scorso a Manama, in Bahrein. Inoltre, prima dell’incontro del 9 e 10 gennaio ad Abu Dhabi e dopo un summit in videoconferenza tenuto a ottobre, il 10 novembre il Comitato direttivo del Forum ha adottato un “Quadro di cooperazione regionale”, reso pubblico solo dopo il vertice di quest’anno e che fungerà da base per il prossimo meeting previsto a marzo in Marocco. A nessuno di questi appuntamenti sono stati ospitati rappresentanti palestinesi, né lo saranno nel prossimo futuro.

    Sin dall’inizio, prima l’Egitto e poi il Marocco hanno proposto di integrare nel Forum anche l’Autorità nazionale palestinese, un’idea finora caduta nel vuoto. Ultimamente anche gli Usa hanno spinto in questa direzione, suggerendo però ai palestinesi di partecipare ai soli gruppi di lavoro per valutare eventuali progetti economici interessanti per il loro popolo. Una proposta respinta al mittente. Per solidarietà, anche la Giordania – invitata da Israele – ha finora rifiutato di partecipare ai vertici. Ma di cosa si è discusso negli ultimi due anni? In primis di cooperazione militare e poi di commercio. Mai, concretamente, di pace.

    Ben altri frutti

    A margine dell’ultimo incontro, il consigliere del Dipartimento di Stato Usa, Derek Chollet, che ha co-presieduto il gruppo di lavoro sulla sicurezza regionale guidato da Stati Uniti e Bahrein, ha dichiarato alla stampa che i presenti «hanno escogitato diversi progetti concreti» per rafforzare le capacità militari dei Paesi aderenti. Altri funzionari del Dipartimento di Stato Usa hanno confidato al portale al-Monitor che le questioni più calde discusse dal forum riguardavano la pandemia di Covid, la guerra della Russia all’Ucraina e la sicurezza alimentare e idrica nella regione. Nello specifico, si è parlato di collegamenti aerei diretti, controllo delle frontiere e preparazione alle catastrofi ambientali. Insomma nessun passo avanti politico sulla questione palestinese. Tanto che nel giugno scorso, i funzionari statunitensi presenti al vertice di Manama hanno dovuto chiarire all’Anp che il Forum non sostituisce i colloqui di pace tra israeliani e palestinesi. Ovvio, visto che se ne parla così poco.

    Qualche timido accenno è contenuto nel “Quadro di cooperazione regionale” adottato a novembre dal Comitato direttivo del Forum, secondo cui uno degli obiettivi della piattaforma è «sviluppare e attuare iniziative che rafforzino l’economia e migliorino la qualità della vita del popolo palestinese». «I Partecipanti – si legge nel documento – hanno anche affermato che queste relazioni possono essere sfruttate per creare slancio nelle relazioni israelo-palestinesi, verso una risoluzione negoziata del conflitto».

    Al di là di questa dichiarazione di intenti però non risulta alcuna discussione concreta sulla questione all’interno dei gruppi di lavoro, anzi. Alcuni funzionari dello Stato ebraico hanno rivelato al portale Axios che più di una delegazione dei Paesi arabi presenti ha chiesto di menzionare il conflitto israelo-palestinese nella dichiarazione finale a margine del vertice di Abu Dhabi, un riferimento tolto dal testo dopo le obiezioni di Tel Aviv. Non sorprende visto l’avvicendamento al governo avvenuto a fine anno tra l’ex premier Yair Lapid e Benjamin Netanyahu, tornato in carica per un sesto mandato alla guida dell’esecutivo più a destra mai visto in Israele.

    Se sul fronte della pace non si vedono risultati, i frutti dal punto di vista economico sono sorprendenti. Secondo l’Abraham Accords Peace Institute, che elabora i dati dell’istituto di statistica israeliano, grazie a questi accordi nei primi sette mesi del 2022 il commercio bilaterale tra Tel Aviv e gli Emirati Arabi ha superato i 2,35 miliardi di dollari, in aumento del 115% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Tutto questo anche grazie a progetti importanti come il Trans-Israel Pipeline, l’oleodotto dell’israeliana Eilat Ashkelon Pipeline Company (Eapc) che grazie a un accordo con l’emiratina Med-Red trasporterà il greggio del Paese arabo dal Mar Rosso al Mediterraneo, in direzione dell’Europa. Anche il turismo ne ha beneficiato: negli ultimi due anni, secondo il competente ministero israeliano, oltre mezzo milione di cittadini dello Stato ebraico ha visitato Abu Dhabi e Dubai.
    Una crescita ancora superiore dei rapporti economici è stata invece registrata negli scambi tra Israele e il Bahrein, aumentati negli stessi mesi del 164% annuo. Percentuali più modeste ma comunque molto positive riguardano anche le relazioni bilaterali con Marocco (+34%) ed Egitto (+27%). Ed è solo l’inizio.

    Stando a uno studio della Rand Foundation, se pienamente realizzati, nei prossimi dieci anni gli Accordi di Abramo potrebbero creare fino a 4 milioni di nuovi posti di lavoro e 1.000 miliardi di dollari di nuove attività economiche in tutta la regione.

    Il convitato di pietra
    Se finora gli accordi hanno consolidato semplicemente lo status quo nei territori occupati, lasciando la questione palestinese ai margini e rappresentando al più un passo verso uno sviluppo senza giustizia, il superamento del rifiuto di alcuni Paesi arabi a riconoscere e ad avviare alla luce del sole relazioni dirette con lo Stato ebraico – principio su cui si è fondata la geopolitica mediorientale sin dal vertice della Lega Araba di Khartoum del 1967 basato sui “Tre no”: «nessuna pace, nessun riconoscimento, nessun negoziato» con Israele – costituisce senz’altro uno storico passo avanti per limitare le tensioni nella regione.

    Come sottolineato all’epoca dall’editorialista del New York Times, Thomas Friedman, «i maggiori cambiamenti in Medio Oriente si ottengono quando i grandi attori fanno le cose giuste per i motivi sbagliati». In questo senso, il progressivo avvicinamento di Israele ad alcuni regimi arabi – anche per mezzo di nuove opportunità economiche – potrebbe favorire un’attenuazione delle tensioni regionali, ancorché questo non abbia effetti significativi sui territori occupati, dove si continua a morire (oltre 500 decessi da ambo le parti dalla firma degli Accordi e la quarta guerra di Gaza). Ma, come spiegato l’estate scorsa dal ministro degli Esteri saudita Adel al-Jubeir, la pace «arriva alla fine del processo, non all’inizio». Insomma siamo ancora ben lontani da una soluzione.

    In primis perché, nonostante gli sforzi, né Israele né gli Usa sono riusciti ad allargare gli Accordi a nuovi membri. Persino gli Stati del Golfo come l’Oman e il Qatar che hanno a lungo mantenuto relazioni sottobanco con Israele hanno finora rifiutato di seguire l’esempio degli Emirati Arabi e del Bahrein. Addirittura, a inizio gennaio Muscat ha approvato una legge che criminalizza qualsiasi relazione o interazione con “l’entità sionista”, mentre Doha considera gli accordi un ostacolo alla soluzione dei due Stati.
    Inoltre, malgrado piccole ma sensibili aperture da ambo le parti, come la revoca del bando dell’aviazione israeliana dallo spazio aereo del regno arabo e l’assenso di Tel Aviv all’acquisto saudita delle isole egiziane di Tiran e Sanafir nel Mar Rosso, nemmeno Riad ha ancora aderito agli accordi e non sembra essere intenzionata a cambiare idea molto presto.

    Come emerso dall’ultimo incontro tra il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan e il premier israeliano Benjamin Netanyahu, avvenuto il 19 gennaio a Gerusalemme, il primo passo per la normalizzazione delle relazioni tra Tel Aviv e l’Arabia Saudita passa dal ricucire i rapporti tra Riad e Washington, deteriorati negli ultimi tre mesi dopo l’accordo raggiunto con la Russia in sede Opec+ per ridurre drasticamente la produzione di petrolio, un’opzione avversata dagli Usa ed esclusa dai sauditi durante il viaggio di Biden nel regno nel luglio scorso. E si torna sempre agli interessi economici, privilegiati rispetto alla pace.

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