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    Il prezzo della democrazia. “Giovani italiani, credeteci ma cambiatela”: il messaggio dell’economista Julia Cagé

    Julia Cagé

    La democrazia ha un costo e spesso vince chi paga, ma allora per vincere tutti dobbiamo pagare tutti, nella stessa misura

    Di Benedetta Ruffini
    Pubblicato il 6 Lug. 2020 alle 15:10 Aggiornato il 6 Lug. 2020 alle 17:00

    Julia Cagé, 36 anni, è una della tre finaliste per il premio Best Young Economist 2019. Insegna a Sciences Po a Parigi, dove co-dirige il Laboratorio di Valutazione delle Politiche Pubbliche (LIEPP). Ha scritto “Il prezzo della democrazia” per fare chiarezza su quanto costa vivere in una democrazia e sul perché dovrebbe importarci se alcuni (pochi) pagano più di altri (tanti), a spese di tutti.

    Il problema

    Il punto di partenza è banale, ma importante: la democrazia ha un costo. Vincere le elezioni non è gratis: le campagne elettorali e i manifesti, l’affitto dei teatri per i comizi e le magliette con gli slogan del partito sono tutte attività importantissime per vincere, ma non sono alla portata di tutti. Anche i social media, che potrebbero dare l’illusione di aver abbassato i costi della politica, si sono in realtà limitati a spostare i costi online. Per un’efficace strategia di comunicazione sui social media servono (molti) soldi: ad esempio, Trump ha speso 85,7 milioni di dollari in pubblicità online, contro i 32 milioni di Hilary Clinton. Sembrerebbero soldi spesi bene, se pensiamo che dal 2004 a oggi è sistematicamente il candidato ad aver destinato la maggior parte delle spese elettorali alla pubblicità online ad aver vinto le elezioni negli Usa.

    Insomma, se bastasse avere un messaggio politico condivisibile ed essere bravi comunicatori per raggiungere centinaia di migliaia di fan su Facebook, probabilmente la democrazia non sarebbe in crisi. E invece lo è: in democrazia vince chi spende. In Europa come negli Stati Uniti, spendere di più significa assicurarsi un risultato elettorale migliore. “Democrazia significa una persona, un voto. Sulla carta, ogni cittadino ha lo stesso peso nel gioco democratico. […] Ma il sistema attuale è più simile a un euro, un voto”, scrive Cagé nel suo libro. Insomma, le preferenze politiche dei ricchi contano più di quelle dei poveri. Il peso maggiore dei ricchi sulla bilancia politica non è soltanto tollerato, ma favorito dalle regolamentazioni attuali.

    Julia Cagé si sofferma sul caso italiano che consente ai (pochi) ricchi di votare più volte a spese dei (tanti) più poveri che devono accontentarsi di votare una volta sola alle urne. In Italia, il meccanismo del due per mille consente a ogni cittadino di destinare il due per mille (lo 0,2 per cento) delle proprie tasse sul reddito a un partito a scelta. Il contribuente può quindi esprimere una preferenza politica sul modulo della dichiarazione dei redditi, ma alcune preferenze politiche costano (molto) più di altre. O meglio, per il singolo contribuente usufruire del due per mille non ha alcun costo: il prezzo è sostenuto dallo Stato (quindi, da tutti gli altri), con conseguente riduzione dei fondi disponibili per i servizi pubblici come la scuola e la sanità. Tanto più alto è il reddito, quanto più è importante il finanziamento che ciascun cittadino può destinare gratuitamente a un partito. Ad esempio, lo Stato si impegna a versare 2mila euro al partito scelto da un ricco imprenditore che paga un milione di euro di tasse all’anno (ma verserà solamente 2 euro al partito preferito da chi paga mille euro di tasse all’anno e non verserà proprio nulla al partito preferito da chi è più povero ed è quindi nella ‘no tax area’).

    Insomma, minore la ricchezza, più basse le tasse e meno importanti per lo Stato le preferenze politiche. Avete detto democrazia? Non a tutti è concesso poter finanziare il proprio partito preferito gratuitamente: per cominciare, non è concesso ai 13 milioni di italiani che non pagano l’IRPEF perché disoccupati o con un reddito inferiore a quello tassabile: se le tasse sul reddito sono pari a zero, il due per mille di zero è zero. “In molti parlano di tax democracy, io preferisco parlare di tax plutocracy, un sistema elettorale che favorisce in modo strutturale e non trasparente il peso politico dei più ricchi a spese degli altri”.

    È un dato di fatto che i disoccupati e gli studenti senza alcun reddito non possono destinare alcuna somma dei soldi pubblici al proprio partito preferito. Allo stesso modo, le preferenze politiche dei cittadini con redditi più bassi (spesso, i giovani) incideranno meno sul peso della bilancia. In Italia, dove il 23,5 per cento degli under 24 è disoccupato, le preferenze politiche dei giovani sembrerebbero essere molto economiche per lo Stato. Se i partiti che ricevono più finanziamenti hanno anche più possibilità di vincere, il deficit di rappresentanza sembrerebbe più subìto che scelto. “I cittadini non si stanno allontanando dalla democrazia, ma dalle sue forme attuali, che lasciano senza voce chi non è ricco”.

    La soluzione

    La buona notizia è che è possibile cambiare le cose. E la crisi attuale potrebbe rendere necessario farlo. La cattiva notizia è che per farlo non basta scendere in piazza: bisogna essere consapevoli dei termini essenziali del dibattito e conoscere il funzionamento delle nostre democrazie. Sono tre le soluzioni proposte per riscoprire il senso della democrazia, dove uno vale uno:

    “Buoni per l’uguaglianza democratica” (BUD). Se il conto per vincere un’elezione è salato e in democrazia vince chi paga, allora per vincere tutti dobbiamo pagare tutti, nella stessa misura. La democrazia costa molto, ma un prezzo totale esiste (circa 32 euro a persona, in base ai dati scaricabili sul sito www.leprixdelademocratie.fr). Se 32 euro è il prezzo a persona per vivere in una democrazia per cinque anni, sembrerebbe ragionevole dividere il costo equamente tra tutti. Ogni anno, sul modulo della dichiarazione dei redditi, dovrebbe essere possibile per i cittadini esprimere la propria preferenza politica e decidere così a chi destinare il proprio buono per l’uguaglianza democratica, pari a 7 euro di denaro pubblico. Con i BUD, ogni persona può destinare la medesima somma di fondi pubblici al proprio partito preferito. Se nell’attuale sistema del due per mille ai partiti conviene convincere gli elettori più ricchi, con i BUD non ci sono cittadini di serie A (i ricchi) e di serie B (i poveri).

    Limitazione dei finanziamenti privati alla democrazia. Per il corretto funzionamento dei voucher di uguaglianza democratica, è necessario limitare le donazioni private a partiti, movimenti e fondazioni politiche a un massimo di 200 euro a persona. Oggi, in Italia, il tetto dei finanziamenti privati ai partiti è molto più alto (fino a 100mila euro) e non ci sono limiti per i finanziamenti alle fondazioni politiche (!). Il pagamento di grandi somme di denaro ai partiti è inoltre sovvenzionato dallo Stato. Ancora una volta quindi, i cittadini ricchi (ma anche le aziende) possono finanziare il proprio partito politico preferito a spese degli altri. Come? In molte democrazie occidentali (Italia, ma anche Francia, Canada, Spagna e Germania), le donazioni private ai partiti politici sono associate a benefici fiscali. Più alte le donazioni private ai partiti, maggiore il costo per lo Stato (e quindi, per la collettività).

    In Italia, è prevista una detrazione dall’imposta pari al 26 per cento delle donazioni ai partiti comprese tra 30 euro e 30mila euro (D.L. n. 149 del 2013). Il costo sostenuto dallo Stato va quindi da un minimo di 7,8 euro per una donazione di 30 euro a 7.800 euro per una donazione di 30mila euro o maggiore. Se i cittadini più ricchi vogliono donare 30mila euro ciascuno, lo Stato si farà quindi carico di 7.800 euro per ognuno, con conseguente riduzione dei fondi pubblici (di tutti) per sovvenzionare le preferenze politiche di pochi. Se invece tanti cittadini volessero donare un importo inferiore a 30 euro, lo Stato non si farebbe comunque carico di nulla. Perché ciascuno abbia la stessa capacità di influenzare la politica (una persona, un voto), è necessario conoscere ed eliminare quei meccanismi che consentono a chi ha di più di influenzare maggiormente la vita politica.

    Un’Assemblea mista, sociale e politica. C’è un altro fantasma che minaccia le nostre democrazie: la mancata rappresentanza delle classi popolari. Lavoratori dipendenti e operai rappresentano meno del 2 per cento dei deputati negli Stati Uniti, ma sono il 54 per cento della popolazione attiva. Allo stesso modo, non c’è alcun operaio nell’Assemblea nazionale francese. Come nel caso della parità uomo-donna e delle quote rosa, occorre affrontare il problema della parità sociale in modo serio, come seria è l’esclusione delle classi operaie dalla politica. Secondo Julia Cagé una parte di deputati dovrebbe essere eletta con il sistema proporzionale in liste socialmente paritarie. Questo dovrebbe portare a Parlamenti più popolari nella loro composizione e più consapevoli della realtà quotidiana della maggioranza dei cittadini.

    Il messaggio ai giovani italiani. Dal suo ufficio a Sciences Po a Parigi, Julia Cagé spera che il suo libro sia letto come un invito a non rassegnarsi. “Non possiamo essere soddisfatti del funzionamento ipocrita delle nostre democrazie, unicamente rappresentative degli interessi del denaro. Ma non dobbiamo rassegnarci”, mi dice quando la incontro. Se la democrazia costa cara, è importante domandarsi chi sia a pagarne il prezzo e perché. Le campagne elettorali non si autofinanziano, sono finanziate. Da chi? E con quali soldi? I grandi problemi come la crisi della democrazia rappresentativa possono essere scomposti in problemi più piccoli, che possono essere affrontati e risolti, uno alla volta.

    Per salvare la democrazia, serve conoscerne i meccanismi e domandarsi se sia giusto che siano sovvenzionate con soldi pubblici unicamente le preferenze politiche dei più abbienti (attraverso il due per mille) e le donazioni più cospicue (superiori ai 30 euro). “Quello che voglio dire con questo libro è che è possibile cambiare le cose, ma non basta scendere in piazza per farlo. Bisogna interessarsi al funzionamento e al finanziamento della democrazia, ai cavilli che sembrano noiosi e tecnici, come il due per mille e le agevolazioni fiscali per le donazioni private ai partiti, perché è lì che nascono le distorsioni che consentono ai ricchi di votare due, tre, cento volte. È solamente capendo la natura dei problemi che si può liberare la democrazia da chi la tiene in ostaggio”.

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