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    Rinuncia al reddito di cittadinanza: “Il gioco non valeva la candela”

    Rinuncia al reddito di cittadinanza: "Il gioco non valeva la candela"
    Di Maria Elena Gottarelli
    Pubblicato il 18 Mag. 2019 alle 19:32

    Reddito di cittadinanza rinuncia | Né occupato né disoccupato, né giovane né in pensione, né povero né ricco. Marek (nome fittizio per proteggere l’identità dell’interessato) è l’esempio emblematico delle falle del sistema del reddito di cittadinanza.

    Marek, 53 anni, ha raccontato al Corriere della Sera di avere rinunciato al reddito di cittadinanza. Perché? Perché alle Poste gli è stato riferito che aveva diritto a appena 186,46 euro. Questo, non un centesimo di più, quanto gli spettava secondo i calcoli del suo suo Isee.

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    A conti fatti, Marek ha così deciso che “il gioco non vale la candela”.

    Nel suo articolo, Antonio Polito tratteggia il profilo di Marek, descrivendolo come “un singolare prodotto della complessità sociale dell’indigenza, e di quel palcoscenico della vita che è Napoli, dove niente è come appare”.

    Lavoratore occasionale per due aziende, Marek  vende libri di medicina, fa campagne promozionali ed è venditore e vetrinista. Non guadagna più di cinquemila euro l’anno.

    “Ci sto attento”, dice, “perché se supero quella cifra poi devo aprire una partita Iva e allora se ne vanno centinaia di euro ogni tre mesi”.

    “Mi chiamano quando hanno bisogno”, continua. Un classico esempio, secondo Polito, della cosiddetta “trappola delle soglie”, un fenomeno tutto italiano per cui il nostro paese è “pieno di gente che non vuole crescere per non emergere”.

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    Reddito di cittadinanza rinuncia | Marek racconta di essere rimasto sorpreso nel momento in cui ha scoperto di avere diritto a solo 186 euro. “Mi aspettavo 780 euro, come mi avevano detto, o almeno 500”, visto che come assegnatario di un alloggio non paga nemmeno l’affitto.

    Il problema, per Marek, è che ora gli viene chiesto di firmare il DID, cioè una Dichiarazione di Immediata Disponibilità al lavora. “Ma si parla di otto ore di lavori sociali alla settimana, più corsi di formazione”, spiega.

    “Se mi mettono per iscritto che le posso cumulare in un solo giorno, e che i corsi sono serali, allora posso continuare a lavorare e accetto l’assegno. Ma nessuno me lo sa dire”, aggiunge con preoccupazione.

    “E se io invece devo fare due ore al giorno, più due di viaggio, quando lavoro più? Oppure mi scrivono su un pezzo di carta che io rinuncio a tutto per sei mesi, faccio i corsi, e poi dopo ho un lavoro fisso. Allora ci sto. Ma con un milione di domande, dove li trovano un milione di posti di lavoro. Chi ci crede?”, conclude.

    Un caso, secondo Polito, da studiare attentamente, in quanto sarebbe la dimostrazione che la povertà, in Italia, non è forse quella che ci si immaginava. E casi come quelli di Marek potrebbero rivelarsi più frequenti di quanto sembri.

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