Quando, alla metà di ottobre del 1910, l’architetto e urbanista francese Eugene Henard si rivolse al Royal Institute of British Architects di Londra per discutere «l’influenza che il progresso della scienza e dell’industria moderne può esercitare sulla pianificazione, e in particolare sull’aspetto, delle città del futuro», il suo discorso fu dapprima bollato come utopico e solo in seguito riconosciuto come una pietra miliare che anticipava i progressi tecnologici degli anni successivi, come il trasporto aereo, le condutture per gas, elettricità, acqua potabile e le linee telefoniche.
Ben prima di lui però, nel Quinto secolo a.C., Ippodamo di Mileto fu, forse, il primo a teorizzare una suddivisione regolare delle città, ricorrendo alla geometria per la pianificazione urbana. Da allora fino ai giorni nostri, passando per le utopie dell’Umanesimo e del Rinascimento, in tanti hanno provato a immaginare come e dove avrebbe vissuto in futuro l’umanità. Proviamo, modestamente e sulla base delle più recenti previsioni, a immaginarlo anche noi.
Cambiamenti demografici
Ad oggi il 55% degli esseri umani, secondo le Nazioni Unite, vive in aree urbane, una percentuale che dovrebbe arrivare al 68% entro il 2050. Il graduale spopolamento delle aree rurali a favore delle città, unito alla crescita complessiva della popolazione mondiale, che nei prossimi 25 anni dovrebbe arrivare a 9,8 miliardi di persone, potrebbe aggiungere altri 2,5 miliardi di abitanti alle aree urbane, di cui il 90% in Asia e Africa. Tanto che, entro il 2100, tutte le 20 megalopoli più grandi del mondo saranno situate in Paesi in via di sviluppo. Questi agglomerati, che contano più di 10 milioni di abitanti ciascuno, ospitano, secondo il programma Copernicus dell’Ue, la seconda quota più grande della popolazione mondiale. Parliamo di quasi il 7% del totale, che arriverà all’8,8% nei prossimi cinque anni, pari a circa 752 milioni di abitanti. Ma la crescita non sarà uniforme.
Se oggi le regioni più urbanizzate del mondo sono infatti l’America settentrionale (con l’82% della popolazione insediata in città), l’America Latina e i Caraibi (81%), l’Europa (74%) e l’Oceania (68%), l’Asia sfiora appena il 50% di persone inurbate mentre il dato in Africa non supera il 43%. Entrambi i continenti ospitano infatti quasi il 90% della popolazione rurale mondiale mentre Paesi come Giappone, Corea del Sud, Polonia e Romania hanno già visto ridurre le presenze in città negli ultimi vent’anni, soprattutto a causa dell’emigrazione ma anche per un invecchiamento generale.
L’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) certifica come nel 2020 il numero di persone di età pari o superiore a 60 anni abbia superato quello dei bambini di età inferiore a 5 anni in tutto il mondo, prevedendo che, entro il 2050, la percentuale globale degli ultrasessantenni arriverà quasi a raddoppiare, passando dal 12% al 22%, pari a 2,1 miliardi di esseri umani, mentre gli ultraottantenni triplicheranno, arrivando nello stesso periodo a 426 milioni. Se questo cambiamento ha già avuto inizio in Paesi ricchi come l’Italia, dove secondo l’Istat un quarto dei residenti ha almeno 65 anni, ora anche gli altri subiscono cambiamenti significativi. Entro il 2050, per l’Oms, due terzi della popolazione mondiale con più di 60 anni vivrà in Stati a basso e medio reddito.
Insomma le città del futuro aumenteranno la propria popolazione, soprattutto nelle nazioni più povere. Questa sarà concentrata in una manciata di enormi agglomerati urbani, che conteranno molti più anziani. Un tale rapido sviluppo urbano e demografico però comporta una serie di nuove sfide sia in termini ambientali che sociali.
Questione di soldi
Questa tendenza, secondo l’Onu, non si limiterà alla demografia ma coinvolgerà anche l’economia. Se il numero totale di persone che vivono nelle città aumenterà da circa 4,4 a 6,7 miliardi entro il 2050, il processo di urbanizzazione accrescerà anche la ricchezza. Invece dei 195 Stati sovrani, secondo uno studio di McKinsey, ormai sono le 600 maggiori città del mondo a guidare l’economia globale. Queste però dovranno prossimamente fronteggiare la sfida posta da povertà, disuguaglianza ed esclusione sociale, dovuta all’attrazione di immigrati sia dalle zone circostanti che dall’estero. Tali fenomeni, secondo lo United Nations University World Institute for Development Economics Research, sono meno accentuati nelle aree rurali che in quelle urbane, dove invece il coefficiente di Gini, utilizzato a livello internazionale per misurare la disparità nella distribuzione del reddito, risulta più elevato rispetto alle campagne in 36 dei 42 Paesi per cui sono disponibili dati completi. Anche se gli agglomerati più grandi sono in genere più ricchi rispetto alle zone circostanti, la disuguaglianza sociale ed economica in città è maggiore rispetto alle località più remote. Un problema destinato ad acuirsi visto che, come certifica il World Social Report 2025 dell’Onu, il coefficiente di Gini a livello globale è tornato a crescere, dopo 40 anni di calo, a seguito della crisi innescata dalla pandemia di Covid-19. Sia il reddito che la ricchezza infatti sono sempre più appannaggio di pochi.
Le opportunità che offrono i centri urbani, rimarca il dipartimento Affari Economici e Sociali dell’Onu, «sono spesso distribuite in modo diseguale nello spazio, impedendo a interi quartieri e gruppi di popolazione di accedere a un’adeguata assistenza sanitaria, buone scuole, servizi igienici, acqua corrente, opportunità di lavoro e alloggi adeguati». Per questo nascono le baraccopoli, «l’estremo più evidente della concentrazione spaziale della povertà e dello svantaggio urbano». La soluzione dovrebbe dunque risiedere nella pianificazione ma, a quanto pare, la politica mondiale non l’ha ancora capito. «Negli ultimi 20-30 anni, gli Stati non hanno adottato una politica per la creazione di riserve fondiarie», ha denunciato nel novembre scorso il World Urban Forum convocato al Cairo dal Programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani (Un-Habitat). «Pertanto, con l’impennata dei prezzi dei terreni intorno alle città, le persone hanno difficoltà ad accedere ai terreni edificabili». Un problema che si riverbera anche sui prezzi delle abitazioni, che saranno spinti sempre più verso l’alto dalla nuova domanda di alloggi.
Insomma, le città cresceranno, anche economicamente, ma sarà più difficile potersi permettere di abitarci mentre aumenterà il rischio di veder nascere quartieri poveri accanto a zone esclusive. Anche a causa della rivoluzione tecnologica che, secondo l’Onu, «nonostante tutte le sue promesse, tende a creare vincitori e vinti» a livello sociale. Il fenomeno dell’automazione dei processi produttivi infatti, unito allo sviluppo dell’intelligenza artificiale, promette effetti negativi soprattutto per i lavoratori mediamente qualificati che svolgono mansioni impiegatizie, la maggior parte dei quali sono dipendenti a basso reddito, specie giovani, e donne. La disuguaglianza però rischia di essere acuita anche dai cambiamenti climatici, i cui effetti agiscono soprattutto a livello intergenerazionale.
Rischi climatici
L’invecchiamento della popolazione e i crescenti rischi climatici potrebbero infatti ridurre le opportunità di sostentamento delle generazioni future, soprattutto nei Paesi più colpiti da eventi estremi. Entro il 2030, secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, il 2,2% delle ore lavorative totali andrà perso a causa del caldo estremo, segnando una perdita di produttività equivalente a 80 milioni di posti di lavoro a tempo pieno. Inoltre, secondo la Banca Mondiale, la sola scarsità d’acqua indotta dai cambiamenti climatici ridurrà il Pil globale dello 0,5% entro il 2050, con gravi effetti sul panorama urbano. I costi complessivi per il patrimonio immobiliare derivanti dai rischi climatici, secondo un rapporto pubblicato l’anno scorso dalla Gic di Singapore e dalla statunitense S&P Global, potrebbero ammontare a 559 miliardi di dollari nei prossimi 25 anni, creando al contempo nuove opportunità economiche. La domanda di soluzioni per l’adattamento degli edifici agli effetti del clima estremo potrebbe infatti raggiungere nello stesso periodo un totale di 726 miliardi di dollari. Ammesso però che la politica opti per una pianificazione urbanistica più sostenibile.
«Stiamo affrontando una crisi abitativa globale e il modo in cui affrontiamo la questione ora e in futuro contribuirà in modo significativo alle sfide che ci troviamo a fronteggiare», ha dichiarato a fine luglio la direttrice di Un-Habitat, Anaclaudia Rossbach. «Dobbiamo pianificare l’uso del territorio in modo da rispondere alle esigenze ecologiche e sociali». Sono passati già due anni da quando la responsabile globale dell’Onu per il riscaldamento climatico, Eleni Myrivili, ha lanciato l’allarme sull’impatto della canicola nelle aree urbane, diventata «il più mortale tra tutti gli eventi meteorologici estremi». Ma finora sembra rimasta inascoltata, visti i dati storici e le previsioni di crescita del consumo di suolo a livello globale. La superficie urbana mondiale, secondo uno studio pubblicato sulla rivista Nature, era di circa 0,6 milioni di chilometri quadrati nel 2000 mentre nel 2100 arriverà a valori compresi tra 1,1 e 3,6 milioni di kmq, il che non farà altro che acuire le sfide da affrontare.
Alloggi, trasporti, socialità
Col passare del tempo, infatti, le città dovranno adattare i propri servizi per fronteggiare l’aumento e l’invecchiamento della popolazione, l’incremento della disuguaglianza e i costi correlati, esacerbati dagli effetti dei cambiamenti climatici.
In primis però andrà affrontata la questione abitativa nei nuovi quartieri e suburbi che nasceranno accanto alle grandi metropoli, un problema inestricabilmente legato alla mobilità. Nei soli 40 anni tra il 1975 e il 2014, secondo uno studio pubblicato sulla rivista Plos, gli esseri umani hanno convertito in insediamenti più territorio che in tutti i millenni precedenti messi insieme. Dal 1990 la dispersione urbana incontrollata è aumentata del 95%, con una crescita delle aree edificate di quasi 28 chilometri quadrati al giorno (oltre uno ogni ora). Un trend destinato a crescere nei prossimi trent’anni, come stimato da “Infinite Suburbia”, una raccolta di 52 saggi di 74 tra architetti, designer, paesaggisti, urbanisti, ornitologi, ecologisti, sociologi, economisti ed esperti di nuove tecnologie e mobilità, curata dal Center for Advanced Urbanism del Massachusetts Institute of Technology. Queste periferie però, secondo uno degli autori, il professore di architettura del paesaggio Alan Berger, continueranno a espandersi e diventeranno sempre più indipendenti dai centri tradizionali. Delle vere e proprie città nelle città, che però, secondo un altro degli autori, il geografo Joel Kotkin, andranno anche incontro a fenomeni di gentrificazione, che spingono le persone più povere fuori dai centri urbani, in luoghi solitamente lontani dal posto di lavoro e con un patrimonio immobiliare meno appetibile, alimentando la «suburbanizzazione della povertà».
Tale crescita spaziale, in senso geograficamente orizzontale e verticale, avrà effetti anche sul sistema dei trasporti visto che, secondo Kotkin, la forma di mobilità dominante in queste zone resta ancora l’automobile privata. Non a caso per risolvere il problema, secondo lo Urban Mobility Readiness Index 2024 elaborato dall’Oliver Wyman Forum in collaborazione con l’Università di California Berkeley, città come San Francisco, Parigi e Singapore sono già all’avanguardia nel puntare su tecnologie innovative come l’intelligenza artificiale e i veicoli a guida autonoma alimentati da fonti rinnovabili. Qui il futuro promette treni e autobus a idrogeno, aero-taxi, robot-taxi e metro super-veloci, un settore il cui fatturato dovrebbe superare i 314 miliardi di dollari entro il 2035. Soltanto alcune città però potranno permetterseli e nemmeno tutti i loro cittadini.
Questa distanza, geografica e sociale, tra periferia e centro e tra quartieri popolari e gentrificati, metterà anche a rischio i luoghi di aggregazione e socialità. Anche qui, come per la lotta ai cambiamenti climatici, sarà indispensabile un’attenta pianificazione urbanistica, altrimenti rischiamo di condannarci alla solitudine. «Le innaturali concentrazioni metropolitane non colmano alcun vuoto, anzi lo accentuano», scriveva già Eugenio Montale nel suo “Trentadue variazioni” del 1973. «L’uomo che vive in gabbie di cemento, in affollatissime arnie, in asfittiche caserme è un uomo condannato alla solitudine».