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    “Scordatelo: i tamponi qui solo se sei un politico, o un calciatore. Così mia madre è morta di Covid”, il dramma di una famiglia di Orzinuovi

    Roberta Festa e le foto della madre morta di Coronavirus a Orzinuovi
    Di Franco Bagnasco
    Pubblicato il 7 Apr. 2020 alle 19:17 Aggiornato il 8 Apr. 2020 alle 15:12

    “Tamponi? Sono settimane che chiediamo tamponi, ma è impossibile averne. Non te li fanno. E credo che in un caso come il nostro, sarebbe stato il minimo. Abbiamo provato anche ricorrendo in extremis al classico giro di conoscenze, ma i medici ti rispondono apertamente: ‘Scordatelo: i tamponi qui li fanno solo se sei un politico, o un calciatore'”. Roberta Festa, 40 anni, bancaria di Orzinuovi, paesino della civilissima provincia di Brescia, si è trovata travolta da un insolito destino, con tutta la famiglia allo sbaraglio, nel vortice della pandemia. Ha perso mamma; stava per perdere papà. E ora racconta tutto, con sconcertata ma determinata rassegnazione. Sembra impossibile, ma nel dramma le due cose possono a volte convivere.

    Quando e come è cominciata la vostra storia?
    “Il 3 marzo scorso, con mia madre Mariangela, 73 anni, lucidissima, ex insegnante del posto (ne ha tirati su a generazioni, nei dintorni), che aveva la febbre già da qualche giorno e me l’aveva nascosto; quando ha toccato i 39.5 abbiamo chiamato il 112. L’hanno portata al pronto soccorso dell’ospedale di Chiari, diagnosticandole una polmonite dopo una Rx ma mandandola a casa subito senza tampone perché “Non è Covid-19”, dicevano”.

    Ne erano sicuri?
    “Sì, non si capisce come, ma tant’è. All’arrivo sul posto ho notato comunque che c’era già tanta confusione e molto fermento fra il personale, nonostante fossimo solo all’inizio della vicenda Coronavirus”.
    Poi?
    “Lascio casa mia e inizio a curare mamma a casa dei miei, a mani nude, seguendo istruzioni mediche. Dopo un paio di giorni trovo mio padre Giampaolo in bagno, svenuto, col sangue sotto la testa. Era astenia da Covid, ma quello l’ho scoperto dopo. Papà, 79 anni e un profilo Facebook, è sempre stato brillante e in salute. Chiamare il 112 e portarlo al pronto soccorso? Tutti me lo sconsigliavano: ho deciso di curarlo a casa, assumendomi i rischi del caso. Mentre mia madre di là farneticava fra tachipirina e antibiotici generici prescrittimi dal medico su Whatsapp. Il mio compagno Marco, intanto, è venuto a dormire qui, per darmi sostegno. Più avanti farà anche lui tre giorni a 38.5 con tosse e raffreddore”.

    Chi l’ha supportata, oltre al fidanzato?
    “Un’amica infermiera, Carolina Gaibotti, che si è messa da un po’ a lavorare come libera professionista. Mi ha dato tanti buoni consigli e mi ha fatto comprare subito un saturimetro, per la misurazione del livello d’ossigeno”.

    Una situazione di stallo.
    “Che prosegue con me che chiamo il numero verde della Regione, al quale rispondono dei ragazzini con davanti un modulo di domandine standard, come nei call center, e poi si passa a un secondo livello con medici veri che dicono però cose senza conoscere lo stato pregresso del paziente. Fin quando mia madre peggiora al punto che chiamo di nuovo il 112 e viene ricoverata e sottoposta a tampone. Ovviamente è positivo. Prima di entrare in reparto è rimasta due giorni in barella nel pronto soccorso di Chiari”.

    Finalmente un tampone, però.
    “Due per la precisione. Uno gliel’hanno fatto il 7 e un altro il 9, forse per qualche problema riscontrato sul primo. È stato mandato al Sacco di Milano per l’esito. Ho scoperto che quando il tampone è positivo, i medici hanno un protocollo in tre fasi, a seconda del decorso del paziente: nella prima c’è la somministrazione di due antivirali; nella seconda il cortisone, e nella terza il farmaco che usano nella cura dell’artite reumatoide. Già sull’antivirale si sono arenati, perché il primo l’avevano e il secondo è arrivato dopo una settimana. Mia madre è rimasta sotto il casco per la respirazione dal 7 al 26, e intanto la sua pomonite è diventata bilaterale. Alla fine le hanno fatto solo cure palliative: hanno evitato anche il farmaco per l’artrite perché troppo invasivo”.

    Come restavate in contatto?
    “Con un cellulare che le avevamo lasciato. Ogni tanto si toglieva il casco e chiamava preoccupata durante la notte anche mio fratello, che nel frattempo ho fatto tornare da Roma, dove vive, e si è trasferito a casa di una zia. Mia madre è stata lasciata lì ed è morta da sola. Sono riuscita a vederla un attimo prima che morisse grazie alla gentilezza di alcuni infermieri che mi hanno fatta entrare. L’ho vista dietro il vetro e ci siamo scambiate un segno con la mano che per noi voleva dire: forza! Sapevo che non l’avrei più rivista, perché mi avevano detto che non ce l’avrebbe fatta”.

    Intanto suo padre?
    “Sono continuate le cure a casa, grazie a Micheli, un medico che visita a Orzinuovi perché provvisto di tuta, occhialini, guanti e tutto l’occorrente. Non è il nostro medico di base. Ho sentito medici dell’ospedale Civile. Tutti hanno detto di tenere papà a casa”.

    Comprensibile. L’avrei fatto anch’io.
    “Sì, ma bisogna rendersi conto anche della responsabilità che una scelta così comporta: non ha idea di quanti amici e amiche sento ogni giorno con genitori o parenti morti soffocati a casa, quando le cose peggiorano velocemente. Se fosse peggiorato l’avrei avuto sulla coscienza per tutta la vita”.

    Invece ora sta bene.
    “Sì, adesso sta bene. Ma anche lui non è mai stato sottoposto a tampone, così come tutti noi, del resto, nonostante le continue richieste. D’altra parte, non li fanno a medici e infermieri, figurati… Anch’io ho fatto una febbriciattola, tutti abbiamo perso gusto e olfatto. Probabilmente l’abbiamo fatto tutti, il Covid-19, ma non ne siamo certi. E ciò ti condiziona non poco la vita, le relazioni. Ancora adesso non abbraccio il mio compagno, non me la sento”.

    Eppure la Regione diceva non molto tempo fa in conferenza stampa: «Figurarsi. Abbiamo 1.800.000 tamponi in magazzino».
    “Dal quel che ho capito la Regione ha fatto questa scelta: chi viene ricoverato ed è grave è sottoposto a tampone. Tutti gli altri che rimangono a casa, no. Si ritiene possano uscirne senza, col tempo, se l’ossigeno rimane attorno a valori come 90-93. Ma molti poi muoiono per complicazioni improvvise, e non risultano neppure diagnosticati come Covid. La frase che ripetono è questa: “Dovete contare 14 giorni da che siete asintomatici; se peggiora, chiamate il 112”. Quattordici giorni erano passati, e si figuri che sono stata io a dover dire agli operatori del numero verde di prolungarmi la quarantena, in teoria finita, perché avevo a casa ancora mio padre in cattive condizioni! Io tutta quest’eccellenza della Sanità lombarda, non ‘ho vista. Ma non la vedevo neanche prima”.

    In che senso?
    “Mia madre nel 2019 è stata operata al femore all’ospedale di Chiari, che è pubblico, e ci è stato altamente consigliato di fare la notte dentro col paziente. Non per problemi di sicurezza, ma per dare una mano a controllare: c’era solo un infermiere al piano e aveva troppa gente da seguire. Sulla Sanità ci sono stati troppi disinvestimenti negli anni”.

    Come mai la vostra zona è così colpita?
    “Orzinuovi è il punto con la maggiore incidenza nella provincia di Brescia. Non so, forze la vicinanza con Cremona, che ha molti casi. Poi c’è una piazza molto viva. Inoltre si è parlato di una grande gara di bocce tenutasi qualche tempo fa con concorrenti provenienti anche da Codogno. Molti anziani si sarebbero passati lì il virus. Questa è la voce circolante, però. Io conosco la mia storia. Fotogrammi come mio fratello e io che ci guardiamo da un vetro con la mascherina, io dentro e lui fuori. Muti e commossi”.

    Ha qualche recriminazione?
    “È chiaro che mi resterà sempre il dubbio che se a mia madre il Covid fosse stato diagnosticato subito, al primo ingresso al pronto soccorso, forse si sarebbe potuta salvare. E poi c’è il discorso post-traumatico, che bisognerà affrontare, prima o poi. Perché questo, per me e per tanti, è un trauma che scaturisce da un lutto non del tutto compiuto. Quando c’è un lutto si vede il corpo, c’è la bara, si chiude la bara, c’è la sepoltura… Una serie di ritualità. Qui mi è mancato tutto questo e per me oggi mia madre è come se non fosse morta, non me ne rendo ancora conto. Mi sembra che sia in giro da qualche parte ma poi ritornerà. C’è una soffrenza che probabilmente devo ancora vivere. Io come tutte le persone che vengono da un’esperienza simile. Invece mi sono arrivate ieri le sue ceneri e il funerale lo faremo chissà quando; e saremo in cinque”.

    Che cosa le ha insegnato, questa storia?
    “Che nella vita servono fortuna, buoni contatti e buoni consigli. Ma possiamo affidarci a questo, nella Sanità? Parliamoci chiaro: noi in famiglia siamo persone abbastanza avvertite, istruite e mediamente benestanti: ci siamo procurati tre saturimetri e una bombola d’ossigeno e sappiamo in qualche modo come muoverci nel mondo. Ma qui nei dintorni ci sono anziani che hanno fatto i contadini per tutta la vita e che sono morti a gruppetti, uno dietro l’altro”.

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