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    Silvia Romano racconta i mesi di prigionia e la sua conversione all’Islam: “Ho avuto paura, poi mi sono avvicinata a una realtà superiore”

    Credit: ANSA / FABIO FRUSTACI

    Il racconto dettagliato che la giovane cooperante italiana ha fatto agli inquirenti sui suoi mesi di prigionia: dal rapimento alla liberazione passando per la conversione

    Di Niccolò Di Francesco
    Pubblicato il 13 Mag. 2020 alle 10:17 Aggiornato il 13 Mag. 2020 alle 10:54

    Silvia Romano racconta i mesi di prigionia e la sua conversione all’Islam

    “Ho avuto paura, specialmente all’inizio, ma sto bene”: inizia così il racconto che Silvia Romano ha fatto dei suoi mesi di prigionia in Africa, durante il quale ha parlato anche della sua conversione all’Islam. La giovane cooperante italiana (qui il suo profilo), rapita dal gruppo jihadista Al Shabaab un anno e mezzo fa e tornata in Italia domenica 10 maggio, ha raccontato al magistrato Sergio Colaiocco e al colonnello del Ros Marco Rosi i mesi di prigionia, contraddistinti inizialmente dalla paura e dallo smarrimento e proseguiti con la lettura del Corano e la conversione all’Islam. Il racconto, emerso grazie a un articolo del Corriere della Sera, ha inizio proprio nei giorni precedenti il rapimento quando “due uomini erano venuti a cercarmi nel villaggio di Chakama in Kenya. Quando l’ ho saputo non ho dato importanza alla cosa”.

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    E invece qualche giorno dopo arrivano in quattro e la portano via con una moto. “Il viaggio nella giungla è stato tremendo. Le moto si sono rotte subito e quindi abbiamo continuato a piedi per un mese. Mi hanno tagliato i capelli perché dovevamo passare in mezzo ai rovi. Ero terrorizzata. Faceva caldo, ma poi la notte c’ era freddo e dormivamo all’ aperto. Mi hanno dato i vestiti e anche alcune coperte. Abbiamo dovuto attraversare un fiume. Il fango mi arrivava alla vita. Dopo ho saputo che siamo stati in cammino un mese”. Il gruppo, così, arriva nella prima casa: “Mi hanno chiuso in una stanza, dormivo su un pagliericcio. Mi davano da mangiare e non mi hanno mai trattata male, non sono stata incatenata o picchiata. Non sono stata violentata. Però ho chiesto un quaderno. Volevo tenere il tempo, capire quando era giorno e quando scendeva la notte. Volevo scrivere tutto. Ho chiesto anche di poter leggere, libri”.

    Le portano un computer non collegato a internet e un quaderno. “Volevo pregare e mi hanno messo il Corano scritto in arabo e in italiano. Mi hanno anche dato dei libri. Ero sempre da sola e a un certo punto mi sono avvicinata a una realtà superiore. Pregavo sempre di più, passavo il tempo a studiare quei testi. Ho imparato anche un po’ di arabo”. Inizia così la conversione: Silvia Romano ne parla anche con il suo carceriere, quello che “per me era il capo”, l’unico che conosce l’inglese. C’è anche lui quando si celebra la shahada, la cerimonia di adesione all’Islam.

    Il racconto di Silvia continua: “Pregavo e guardavo video. Mi mettevano filmati su quello che accadeva fuori, li prendevano da Al Jazeera. Io vivevo chiusa nella stanza ma sentivo vociare fuori e il richiamo del muezzin. Questo mi ha fatto pensare che fossero caseggiati, erano villaggi con altre persone anche se io ho visto soltanto i sei uomini che mi tenevano prigioniera. Erano divisi in due gruppi da tre. Non ho mai visto donne”. La cooperante racconta anche di essere stata molto male durante la sua prigionia, in almeno due occasioni. “Avevo dolori forti e la febbre, hanno fatto venire il dottore e mi hanno curata. Mi hanno sempre dato da mangiare, se la sera eravamo in viaggio per i trasferimenti e faceva freddo mi davano le coperte”.

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    Nel corso della prigionia, Silvia Romano gira anche tre video, sempre con lo stesso testo, per dimostrare che è viva. Poi, un giorno, l’incubo finisce. “Mi disse che l’ operazione era finita, che mi liberavano. Dopo qualche giorno è venuto a prendermi. Mi ha fatto salire su un carretto trainato da un trattore. Sopra c’era un tavolo. Il viaggio è durato tre giorni e due notti. per dormire mi sono messa sotto il tavolo con le coperte”. Viene consegnata a due uomini e portata nell’ambasciata italiana a Mogadiscio dove viene accolta dall’ambasciatore Alberto Vecchi. Silvia chiede di mangiare una pizza, le viene chiesto se ha bisogno di altri abiti. “No, sto bene così – risponde Silvia – Adesso mi chiamo Aisha, tornerò in Italia con questi vestiti. Continuerò a tenere il velo. Ne parlerò poi con mamma”.

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