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    Il problema non è il cantante che ha insultato Falcone e Borsellino in Rai ma siamo noi, un Paese senza memoria

    Di Giulio Cavalli
    Pubblicato il 11 Giu. 2019 alle 18:27 Aggiornato il 11 Giu. 2019 alle 18:45

    Realiti insulti Falcone e Borsellino – C’è un gran clamore per le offese che Vincenzo “Niko” Pandetta, cantautore neomelodico, ha riservato sulla Rai durante la trasmissione Realiti condotta da Enrico Lucci a Giovanni Falcon e Paolo Borsellino.

    Lui e il suo collega Leonardo Zappalà ci hanno tenuto a fare i piccoli mafiosetti sciocchi attaccando i giudici, dal basso di chi scrive canzoni per lo zio boss (Turi Cappello, detenuto al 41 bis), e ammiccando alla mafia sono riusciti a diventare personaggi calpestando i martiri della mafia come se fossero roba da niente e cantano pessime canzoni omaggiando quella mentalità paramafiosa che piace così tanto in alcune zone d’Italia dove la legge del più forte (benché stupido, incapace e vigliacco) vige animalescamente ancora.

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    E c’è la questione delle offese in diretta su una televisione pubblica, è vero. Ma c’è soprattutto un pezzo di Paese, che sembra non si voglia vedere, che già da tempo ha dimenticato Falcone e Borsellino, seppur più velatamente della goffaggine dei due: siamo un Paese che l’obbligo civile dell’essere antimafiosi l’ha dimenticato in nome della propria disperazione (che sia vera o presunta) e della continua scelta della via più comoda.

    Siamo un Paese che è diventato bravissimo a commemorare, facciamo le commemorazioni più belle del mondo, e si è dimenticato di esercitare la memoria tenendone allenato il muscolo per pigrizia sociale, per riuscire a raggiungere obiettivi difficilmente raggiungibili e proprio perché ormai Falcone e Borsellino (come qualcuno vorrebbe) talvolta vengono percepiti come simulacri vuoti di un problema lontano.

    Realiti insulti Falcone e Borsellino – È come se non fosse roba nostra, come se non ci interessasse, come se l’antimafia fosse un hobby da poter praticare a proprio piacimento nel tempo libero e non un prerequisito essenziale in ogni professione, dove i professionisti dovrebbero essere sì quelli pagati con stipendio mensile ma anche e soprattutto quelli che professano i propri valori nel proprio mestiere.

    E allora succede che ci si indigni per due cantanti che comunque al di fuori di quei minuti televisivi hanno un seguito, vendono i loro dischi e riescono a fare incetta di visualizzazioni su Youtube. E dovrebbe essere questo il nostro problema, a pensarci bene: perché hanno seguito coloro che infangano la memoria dei due giudici fatti saltare in aria dalla mafia?

    Perché non è ancora obbligatorio il rispetto di quell’articolo 4 della Costituzione che ci impone (non suggerisce, eh, impone) di concorrere tutti, ognuno con la propria funzione e professione alla crescita materiale e spirituale del proprio Paese?

    Perché in una guerra come quella contro le mafie, ancora oggi, nel 2019, non è sentito come obbligo decidere da che parte stare e prendersene le responsabilità? Queste, in fondo, sono le domande. Più di una trasmissione in Rai.

    Se Falcone fosse vivo, riderebbe amaro di questa antimafia fatta a parole ma che non si traduce in fatti (di Giulio Cavalli)

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