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    Paracetamolo, plasma iperimmune, anticorpi monoclonali: le risposte ai dubbi sulle terapie anti-Covid

    Di Leonardo Biscetti
    Pubblicato il 15 Set. 2021 alle 19:40 Aggiornato il 15 Set. 2021 alle 19:44

    Nell’ultima puntata della rubrica “Parole chiare in medicina” abbiamo fatto il punto sulle terapie anti Covid 19 che sono ad oggi indicate nei pazienti non ricoverati in Ospedale. Riassumendo quanto detto: ad oggi le linee guida raccomandano 1) paracetamolo o FANS per la malattia sintomatica lieve gestibile a domicilio e 2) anticorpi monoclonali (finora in Italia ne sono stati approvati tre) in casi selezionati (pazienti con fattori di rischio di andare incontro ad una forma grave di malattia). Con una precisazione: mentre i FANS o il paracetamolo possono essere assunti a casa comodamente dal paziente, gli anticorpi monoclonali possono essere somministrati solo in regime ambulatoriale sotto stretto controllo medico. E mentre i FANS e il paracetamolo costano pochissimo e sono universalmente disponibili, gli anticorpi monoclonali sono molto costosi e non sono disponibili per tutti. All’infuori di queste categorie di farmaci, non abbiamo ad oggi nessuna medicina che alla prova dei fatti è risultata oltre ogni ragionevole dubbio utile nei pazienti non ospedalizzati affetti da Covid 19 tanto da essere raccomandata dalle attuali linee guida.

    Dopo questo articolo mi sono state poste diverse domande, a cui penso sia utile dare una risposta pubblica a beneficio di tutti i lettori. Con l’occasione risponderò anche ad alcuni dubbi che seppure non formulati direttamente a me circolano spesso in rete e rispetto ai quali urge, a mio parere, fare chiarezza.

     

     

    Alert: ora il discorso si fa un pochino più ostico perché dobbiamo ragionare un po’ di statistica: chi è interessato provi a seguirmi nel ragionamento, gli altri vadano pure direttamente alle conclusioni.

    Bene, abbiamo detto che il dato puntuale di efficacia della colchicina emerso da questo studio è pari al 25 per cento, ma il dato secco che esce dall’analisi di un campione non è estensibile in automatico alla popolazione generale, perché nella sua determinazione potrebbe ovviamente aver giocato un ruolo anche il caso (il peso del fattore casuale è tanto maggiore quanto più piccolo è il campione selezionato). In statistica allora è possibile stimare con un certo di livello di accuratezza dove si sarebbe collocato il valore reale di efficacia se anziché il campione fosse stata analizzata l’intera popolazione: il metodo per far ciò è il calcolo dell’intervallo fiduciario (in inglese confidence interval, che impropriamente viene tradotto spesso in italiano con intervallo di confidenza).  Ebbene, secondo lo studio in questione, la stima di efficacia della colchicina, con intervallo fiduciario del 95 per cento, risulta compresa tra un poderoso 43 per cento e un misero 1 per cento. Senza avventurarci in un complesso discorso statistico, potremmo tradurre tutto ciò in questo modo: al netto di errori, possiamo stimare con un livello di fiducia del 95 per cento che, se anziché 4400 pazienti fosse stata arruolata l’intera popolazione avente esattamente le caratteristiche della coorte inclusa nello studio, avremmo potuto riscontrare un valore medio di efficacia della colchicina compreso tra l’1 e il 43 per cento. E’ evidente che se un farmaco come la colchicina, economico e ampiamente sperimentato nella pratica clinica, riducesse il rischio composito di morte e ospedalizzazione di un valore che tende al 43 per cento allora andrebbe usato subito, se invece lo riducesse in una misura che si avvicina all’1 per cento bisognerebbe pensarci bene ad autorizzarlo, poiché probabilmente in questo caso non è utile, visto che a quel punto i benefici modestissimi potrebbero essere ampiamente superati dai rischi di effetti avversi (in particolare diarrea). Merita poi qualche considerazione l’incongruenza tra il risultato ottenuto considerando l’intera coorte (diagnosi clinica+ diagnosi molecolare) e quello ottenuto considerando solo i pazienti con tampone positivo per infezione da SARS COV 2. Ricordo a questo proposito che basandosi sull’intera coorte lo studio ha fallito l’obiettivo nella misura in cui, pur essendo stata riscontrata una differenza tra placebo e colchicina a favore di quest’ultima, i risultati non permettevano di dire se tale scarto fosse dovuto al farmaco oppure al caso (o per meglio dire la probabilità che fosse dovuta al caso è risultata inaccettabilmente alta rispetto alla soglia di significatività stabilita a priori); considerando invece solo il gruppo con tampone molecolare positivo, il beneficio del farmaco ha raggiunto la significatività statistica, il che equivale a dire che la probabilità che il dato ottenuto fosse dovuto al caso e non al farmaco è risultata inferiore al 5 per cento (per convenzione, nella maggioranza degli studi clinici si definisce come statisticamente significativa una differenza tra farmaco e placebo se la probabilità che tale differenza sia dovuta al caso risulta inferiore al 5 per cento, che poi è esattamente come dire che la probabilità che sia dovuta al farmaco è superiore al 95 per cento). Tale incongruenza tra dato sull’intera coorte e dato sul gruppo con tampone molecolare  si presta a una duplice possibile interpretazione: da una parte, si può ipotizzare che i soggetti che hanno ricevuto diagnosi solo clinica di Covid in realtà avessero (almeno in una certa percentuale dei casi) un’altra malattia e quindi la loro presenza nella coorte abbia in un certo senso “sporcato” i risultati, facendo sì che il vantaggio della colchicina –che pure è reale – risultasse alla fine statisticamente non significativo. D’altra parte, è però pure possibile che allargando la coorte studiata (quindi aumentando la potenza dello studio) non si sia confermata la significatività statistica del vantaggio del farmaco osservata nel gruppo di soli pazienti con diagnosi molecolare di infezione da SARS Cov 2, per cui tale vantaggio era in realtà un falso positivo. Prendendo per buona questa seconda interpretazione (che per quanto improbabile, non è impossibile) sarebbe cioè accaduto che, aumentando la numerosità del campione, abbiamo finito con l’accorgerci che l’efficacia del farmaco era in realtà un artefatto statistico, o se preferite, un dato fasullo. Insomma, lo studio per quanto incoraggiante lascia diversi dubbi aperti. In ragione di questa incertezza interpretativa, gli stessi Autori, pur definendo la colchicina un’opzione di terapia domiciliare che potrebbe essere considerata nei pazienti a maggior rischio di complicanze, scrivono che “replication in other studies of PCR-positive community-treated patients is recommended” (traduzione: la replicazione dei risultati in altri studi su pazienti non ospedalizzati con diagnosi molecolare è raccomandata). Ed è probabilmente sempre in ragione di questa incertezza interpretativa che le agenzie regolatorie non hanno ad oggi autorizzato l’uso della colchicina per il trattamento del Covid 19. E questo avviene perché, contrariamente alla vulgata no-vax corrente, le agenzie del farmaco sono estremamente prudenti nell’autorizzare i farmaci e prima di autorizzarli pretendono dati solidissimi di efficacia e sicurezza. (“E allora i vaccini?” Ecco, i vaccini anti Covid 19 sono proprio un esempio di prodotti con un profilo eccezionale di efficacia e sicurezza e questo è il motivo per cui sono stati autorizzati, altro che “sieri sperimentali”, “ci usano come cavie” e via discorrendo.)

    Insomma in conclusione (qui potete tornare a leggere tutti!): la colchicina è un farmaco anti-infiammatorio promettente per la cura del Covid 19 che merita di essere assolutamente studiato, ma ad oggi non abbiamo dati sufficientemente solidi di efficacia che ne permettano l’uso nella pratica clinica.

    Per plasma iperimmune si intende il plasma (ovvero la parte liquida del sangue) pieno di immunoglobuline (meglio note al grande pubblico come anticorpi) ricavato da soggetti guariti dal Covid o in fase di convalescenza che viene somministrato a persone malate. Il razionale è: gli anticorpi del guarito aiuteranno il malato a sconfiggere la malattia. L’idea è tutt’altra che assurda e non è neanche una novità in medicina. In diverse malattie, l’uso del plasma (o meglio del siero, ovvero il plasma privato dei fattori di coagulazione), è risultato assolutamente utile: si pensi in particolare al tetano e alla difterite. Quindi chiariamoci subito: quando parliamo di plasma, non parliamo di stregoneria. Parliamo al contrario di una cosa con un fortissimo razionale scientifico. Detto ciò, purtroppo, il razionale in medicina non basta: servono le prove di efficacia. E le prove ahimè per i pazienti gravi sono ad oggi sostanzialmente assenti, per i pazienti con malattia lieve risultano invece assolutamente insufficienti. Vediamo perché. Un trial randomizzato controllato in doppio cieco plasma contro placebo su pazienti ospedalizzati per Covid 19 e pubblicato sul New England Journal of Medicine (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7722692/pdf/NEJMoa2031304.pdf) a novembre 2020 non ha individuato alcuna efficacia del plasma rispetto al placebo né in termini di miglioramento clinico a 30 giorni dalla somministrazione né in termini di riduzione della mortalità. Altri studi su popolazione di pazienti con caratteristiche analoghe hanno portato a simili risultati.  Mettendo insieme tutti i lavori di ricerca pubblicati fino a maggio 2021, una rigorosissima meta-analisi della Cochrane (https://www.cochranelibrary.com/cdsr/doi/10.1002/14651858.CD013600.pub4/abstract?cookiesEnabled) ha alla fine fatto chiarezza definitiva sul tema. Queste le conclusioni a cui gli scienziati sono arrivati: “We have high certainty in the evidence that convalescent plasma for the treatment of individuals with moderate to severe disease does not reduce mortality (…)We are very confident that convalescent plasma has no benefits for the treatment of people with moderate to severe COVID19” (traduzione letterale: “Noi abbiamo una grande sicurezza nell’evidenza che il plasma convalescente per il trattamento di individui con malattia da moderata a severa non riduca la mortalità (…) Noi siamo molti fiduciosi che il plasma non abbia benefici per il trattamento di persone con Covid 19 da moderato a severo”).

    Come se non bastasse, pochi giorni fa è stato pubblicato su Nature Medicine uno studio randomizzato controllato plasma contro placebo su pazienti ospedalizzati che ha ulteriormente confermato la totale inutilità del plasma rispetto ai parametri di intubazione e mortalità (https://www.nature.com/articles/s41591-021-01488-2). Ma questo studio ci ha detto anche altro: il plasma, infatti, non solo non è risultato utile ma è risultato anche pericoloso. In questo studio, infatti, i pazienti trattati con plasma hanno presentato più frequentemente di quelli trattati con placebo effetti avversi seri, come ad esempio peggioramento dell’insufficienza respiratoria. Insomma, da questi risultati, emerge che il plasma almeno nei pazienti gravi non vada assolutamente utilizzato. Dobbiamo allora seppellire per sempre questa strategia terapeutica? In realtà, se nei pazienti gravi l’ipotesi plasma merita di essere definitivamente abbondonata perché abbiamo oggi una montagna di dati tutti negativi, come cura nei pazienti con malattia lieve i dati a disposizione non possono essere considerati definitivi. Non a caso gli Autori della succitata meta-analisi Cochrane a riguardo scrivono: “We are uncertain about the effects of convalescent plasma for treating people with mild COVID19 or who have no symptoms” (traduzione letterale: “noi siamo incerti riguardo gli effetti del plasma convalescente per il trattamento di persone con COVID-19 lieve o che non hanno sintomi”). L’incertezza nasce dalla carenza di dati, legata al fatto che ad oggi è stato pubblicato un solo trial per questa categoria di pazienti. Si tratta di un piccolo studio in doppio cieco realizzato in Argentina su soli 160 pazienti anziani con più di 65 anni con malattia lieve, che entro 72 ore dall’esordio dei sintomi venivano assegnati casualmente in rapporto 1:1 al trattamento o con plasma o con placebo (soluzione salina allo 0.9%). La particolarità dello studio è che nel gruppo sperimentale non è stato somministrato un plasma qualunque, ma solo plasma ad alto titolo anticorpale (cioè molto ricco di anticorpi, per la precisione plasma con titolo IgG anti spike > 1:1000) (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7793608/pdf/NEJMoa2033700.pdf). Questi sono i risultati: alla fine dei giochi, sono stati ospedalizzati 13 pazienti su 80 nel gruppo plasma rispetto a 25 su 80 sul gruppo di controllo, per un’efficacia del plasma nella riduzione del tasso di ospedalizzazione del 48 %. Sembrerebbe un risultato meraviglioso, ma anche qui come sempre cautela. Lo studio ha una numerosità assai scarsa (solo 160 pazienti) e anche qui se non ci limitiamo al dato puntuale di efficacia ma guardiamo ai valori compresi nell’intervallo fiduciario il risultato si ridimensiona molto. Infatti, con un intervallo fiduciario al 95%, l’efficacia varia da un mostruoso 71% a un modestissimo 3% (detto in altri termini: possiamo essere sicuri al 95% che l’efficacia reale che si riscontrerebbe se venisse trattata l’intera popolazione con le caratteristiche della coorte inclusa nello studio si collocherebbe nell’intervallo compreso tra 3 e 71%). Insomma, il risultato pur incoraggiante lascia un estremo margine di incertezza, per cui servono altri studi per capire se si conferma e se sì in che misura questo vantaggio del plasma. Inoltre, pure assumendo come buoni questi risultati preliminari, va precisato che questi risultati valgono solo se si trattano i pazienti entro 72 ore e solo con plasma ad alto titolo (per inciso: lo studio ha anche suggerito che tra tutti i soggetti che avevano ricevuto il plasma il vantaggio del farmaco aumentava all’aumentare del titolo anticorpale). In effetti, è sempre da ricordare che non esiste il plasma, esistono i plasmi. Infatti, la risposta anticorpale, a parità di agente infettivo, è estremamente variabile da persona a persona: alcuni soggetti producono molti anticorpi, altri meno. E non tutti gli anticorpi sono utili: nella lotta al virus, solo gli anticorpi con attività neutralizzante hanno un effetto protettivo, ma non tutti gli anticorpi hanno questa caratteristica. Infondendo il plasma di un soggetto guarito o convalescente, si potrebbero cioè infondere anche anticorpi mal funzionanti che non solo non sono protettivi, ma potrebbero essere anche controproducenti, dal momento in cui vanno a competere con gli anticorpi neutralizzanti prodotti dal malato. Insomma, differentemente dagli anticorpi monoclonali che possono essere prodotti in laboratorio con le caratteristiche desiderate affinché siano efficaci contro il virus, gli anticorpi presente nel plasma di un soggetto non li possiamo scegliere. Di conseguenza, gli anticorpi infusi potrebbero essere d’aiuto come no, soprattutto nel contesto di una malattia come il Covid 19 che induce risposte immunologiche estremamente diverse da soggetto a soggetto. E ovviamente, ammesso e non concesso che le conclusioni del trial argentino siano corrette, andare ad individuare i plasmi ad alto titolo anticorpale con alta percentuale di anticorpi neutralizzanti e andare ad infonderli nei malati a 72 ore dall’esordio dei sintomi sul piano pratico è complicatissimo. A questo punto, nei pazienti con malattia lieve ad alto rischio di peggioramento è molto più sensato utilizzare gli anticorpi monoclonali anti SARS COV 2, che, seppur con i limiti già più volte illustrati in questa rubrica, hanno dimostrato in questo contesto un profilo di efficacia/sicurezza assolutamente favorevole e ampiamente consolidato.

    Insomma, riassumendo: il plasma iperimmune è sicuramente inefficace e forse anche pericoloso nei soggetti con malattia moderata- grave; non sappiamo se sia utile o meno nei soggetti con malattia lieve, ma anche in questo caso, avendo delle alternative a disposizione molto più facilmente utilizzabili sul piano pratico e di sicura efficacia, difficilmente si potrà rivelare un’opzione risolutiva.

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