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    Migranti: l’isola dei giubbotti di salvataggio abbandonati, tra Lesbo e la Turchia. Il reportage di TPI

    Di Valerio Nicolosi
    Pubblicato il 13 Apr. 2019 alle 12:21 Aggiornato il 11 Set. 2019 alle 02:40

    “Happy?”

    “Happy!”.

    È questa la parola che usano a bordo del “Mo Chara”, un gommone progettato per il soccorso in mare, immatricolato nel porto di Belfast e che da quasi 3 anni effettua soccorso in quella fetta di mare tra Lesbo e la Turchia.

    La domanda la pone lo skipper tutte le mattina tra le 5.45 e le 6.00 e una volta ottenuta la risposta da parte dei tre soccorritori, si parte.

    Il gruppo che ha fondato la ONG Refugee Rescue, proprietaria del “Mo Chara”, è arrivato durante l’emergenza del 2015, periodo in cui nelle isole greche arrivarono, in pochi mesi, decine di migliaia di persone.

    “Ogni giorno c’erano barconi che percorrevano le 6 miglia che separano l’Europa dalla Turchia, la situazione era molto diversa da quella attuale. Operavano altre ONG che facevano i soccorsi in mare, c’era la Guardia Costiera e c’erano anche i pescatori, tutti aiutavano e soccorrevano. Poi nel marzo 2016 è arrivato l’accordo con la Turchia e le cose sono cambiate. Non è cambiata la povertà o la disperazione, è cambiata solo la volontà di non accogliere nessuno. Ora la Turchia è pagata per intercettare le persone e riportarle indietro”. Chi racconta è Giannis, un ragazzo ateniese di 29 anni, che attualmente ricopre il ruolo di capo missione.

     

    Lui è venuto a Lesbo per la prima volta nel 2015, proprio nel pieno dell’emergenza. Ascoltava le notizie che arrivavano dall’isola e ha scelto di partire. “Appena arrivato sono rimasto scioccato e ho realizzato che aiutare le persone è quello che volevo fare nella mia vita. Ho continuato a venire come volontario ogni volta che potevo e, dal febbraio 2017, sono parte dello gruppo dei Refugee Rescue”.

    Nonostante siano a tutti gli effetti operatori umanitari, volontari e non, hanno contezza che la questione sia politica e non umanitaria. Nell’isola al momento arrivano una media di 800/900 persone al mese, nella gran parte afgani che hanno lasciato il proprio paese, attraversato l’Iran e poi la Turchia fino ad arrivare alle coste. Altri provengono dall’Iraq, altri ancora dai paesi dell’Africa subsahariana.

    “I migranti sono bloccati nei campi turchi e quando provano ad attraversare il mare, lo fanno in condizioni estreme. Di notte e senza luci per non essere intercettati, rischiando di incagliarsi nelle numerose pietre”, aggiunge il capo missione che in questi giorni svolge anche l’attività di skipper del “Mo Chara”.

    Gli altri sono ragazzi e ragazze giovanissime arrivati principalmente dal Nord Europa. Tra questi c’è Finn, un ragazzo di 19 anni alto due metri, timido e sempre con il sorriso sul volto. Arriva dall’Irlanda del Nord, proprio come il gommone su cui opera.

    “Dopo aver finito il liceo sono venuto qua per fare il volontario perché penso sia importante aiutare le persone che scappano dalla guerra e dalla fame. Prima di iniziare ad operare sul gommone ho fatto parte del team a terra che si occupa di fare osservazione con i binocoli e fare la prima accoglienza sulla costa. La prima volta che ho dato il ‘Welcome’ a delle persone è stato bellissimo: erano stanchi e spaventati ma quando hanno capito che erano salvi e che noi eravamo là per aiutarli, si sono emozionati e io con loro”.

    Giannis, Finn e gli altri operano nel nord dell’isola e hanno come base Skala Sikamineas, un piccolissimo paese immerso tra delle baie difficilmente raggiungibili a piedi. Proprio queste baie sono uno dei punti d’approdo delle barchette e dei gommoni. La polizia qua non può arrivare via terra e la Guardia Costiera con le motovedette non può avvicinarsi alla costa per via delle numerose rocce presenti in mare. Proprio le rocce però, sono uno dei problemi principali per i migranti. In molti si sono incagliati rompendo le barchette e mettendo a repentaglio la propria vita. Nelle piccole insenature se ne vedono molte, insieme ai giacchetti di salvataggio abbandonati una volta che le persone sono arrivate a terra.

    E sono proprio i “Lifejacket” il simbolo di un’isola che fino a pochi anni fa viveva di pesca, pastorizia e turismo mentre invece negli ultimi anni è diventata uno snodo cruciale delle rotte migratorie. I giacchetti di salvataggio si trovano spessissimo lungo le baie ma anche nelle colline, portati dal vento.

    Sono talmente un simbolo di quest’isola che quella che era una discarica dove venivano portati, oggi è diventato il loro “Cimitero”, indicato anche su Google Maps, con tanto di foto e recensioni, e dove si arriva attraverso una strada sterrata.

     

    Due enormi montagne arancioni dove troviamo anche indumenti dei migranti, effetti personali, resti di gommoni e i piccoli motori che hanno usato per la traversata.

    A pochi metri ci sono anche delle barchette turche, abbandonate li per non farle riusare dagli scafisti. Stessa tecnica utilizzata con chi arriva dalla Libia e dalla Tunisia verso l’Italia. Il risultato è quello di ridurre sempre di più il costo dei natanti, fino ad arrivare a gommoni prodotti in Cina e che costano 100 euro. Sempre più spesso dalla coste libiche vengono utilizzati per affrontare il Mediterraneo Centrale.

    “Non è una crisi umanitaria, è una crisi politica e l’hanno creata i nostri governi, prima nei paesi d’ordine dei migranti con fame e guerra e poi qui, con gli accordi con la Turchia e le condizioni nei campi profughi”, chiosa Giannis mentre alla tv del bar del porto passano le immagini della polizia che carica i migranti a Salonicco perché vogliono continuare il proprio viaggio verso nord, raggiungendo amici o parenti.

    Leggi l'articolo originale su TPI.it
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