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    Ilva, dal modello cinese all’appoggio pubblico: le ipotesi per sbloccare l’impasse

    Credit: Ansa

    I pm di Taranto indagano per "danno all'economia nazionale". In settimana probabile nuovo incontro fra Conte e i dirigenti dell'azienda e i sindacati pensano a una protesta nazionale. Ecco le ipotesi sul tavolo per salvare l'acciaieria

    Di Veronica Di Benedetto Montaccini
    Pubblicato il 18 Nov. 2019 alle 12:14 Aggiornato il 18 Nov. 2019 alle 16:29

    Ilva di Taranto, dai soci cinesi all’appoggio pubblico: le ipotesi per sbloccare l’impasse

    Per l’Ilva di Taranto il tempo stringe perché con l’annuncio dello spegnimento degli altiforni dal 13 dicembre prossimo e l’inizio di una possibile battaglia legale tra lo Stato italiano e ArcelorMittal per “danni all’economia nazionale”, il governo è costretto a valutare tutte le possibili opzioni sul tavolo per salvare la più importante acciaieria italiana.

    Le possibili ipotesi in campo dipenderanno dal futuro dello scudo penale, unica garanzia per i nuovi soci per non avere problemi dopo l’ipotetica acquisizione dell’azienda. Secondo Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria, è necessario ripristinare lo scudo: “Occorre ammettere l’errore che si è fatto, da cui si è determinata questa situazione”, ha ribadito Boccia.

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    Ipotesi 1: possibile schema cinese

    Tra le ipotesi per salvare l’Ilva di Taranto c’è quella del “modello cinese”, come riportato anche dal quotidiano Il Sole 24 Ore.

    Il gruppo cinese Jingye ha raggiunto un accordo per acquisire il produttore siderurgico British Steel in bancarotta. Un affare stimato in circa 70 milioni di sterline (90 milioni di dollari) che potrebbe essere l’unica possibilità di tutela per migliaia di posti di lavoro britannici di un colosso da tempo in crisi e le cui trattative con i turchi di Ataer erano già entrate in stallo.

    Ora il governo italiano si appresta a incontrare i consulenti di Ernst&Young che in passato hanno lavorato all’operazione di salvataggio delle acciaierie British Steel, rilevate lo scorso maggio, dopo il fallimento, per un importo di 70 milioni di sterline (circa 81,5 milioni di euro).

    I cinesi contestualmente al salvataggio si sono in quel caso impegnati a rispettare un piano di riconversione degli impianti dal carbone a fonti di energia pulita che richiederà un investimento di 1,2 miliardi di sterline (1,4 miliardi di euro).

    L’opzione cinese potrebbe essere facilitata dal clima amichevole creato dall’intesa che i governi italiani, a cominciare dal Conte 1, hanno stabilito con le autorità di Pechino nel siglare il memorandum sulla “Via della seta”, firmato lo scorso marzo, e che ha come obiettivo «impostare una più efficace relazione e costruire meglio i rapporti tra i due Paesi”.  L’Italia è stata l’unico Paese dell’Unione europea a sottoscrivere questo tipo di documento con Pechino, puntando alla costruzione di una relazione di partnership speciale con i cinesi.

    Va ricordato che il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, era proprio in Cina quando è scoppiato il caos Ilva. Durante gli incontri non aveva negato di aver riscontrato interesse, ma al rientro aveva detto ai microfoni di Radio24: “Se mi chiedete se abbia cercato di piazzare Ilva ai cinesi la risposta è no. C’è Mittal e non possiamo permettere che se ne vada”. Il leader M5S è tornato ad attaccare la multinazionale e, in perfetta sintonia con il segretario della Cgil Maurizio Landini, ha ribadito che “parlare del Piano B per Taranto significa dare la migliore via d’uscita ad ArcelorMittal”.

    A rendere impraticabile questa soluzione sono i numeri: con due milioni di perdita giornaliera e la forte riduzione di capacità produttiva determinata dalla chiusura dell’Altoforno 2, la capacità produttiva dell’Ilva di Taranto è ridotta da 6 a 4,5 milioni di tonnellate e su questi livelli non potrà più impiegare gli attuali 10.700 addetti (più altri 1.700 in cassa integrazione).

    Ipotesi 2: salvataggio di Cassa Depositi e Prestiti o intervento pubblico

    Ecco dunque tornare in campo l’ipotesi di un intervento della Cassa Depositi e Prestiti, con un eventuale ingresso della Cdp nel capitale di Am Investco Italy, nella quale tuttavia i Mittal dovrebbero mantenere una posizione di rilievo. A questa ipotesi si oppongono le fondazioni, azioniste di Cdp al 15,9 per cento.

    Evitando di assumere rischi eccessivi e in sintonia con il suo mandato di proteggere il risparmio postale da cui si alimenta, la Cassa potrebbe fare da capofila per creare attraverso società a partecipazione pubblica come Fincantieri o Finmeccanica un polo di nuove iniziative produttive legate al consumo di acciaio e localizzate nell’area tarantina.

    Allo studio del governo esiste anche l’ipotesi di un intervento pubblico, che necessariamente prenderebbe forme diverse da quelle di una nazionalizzazione toutcourt dell’impianto di Taranto.

    Ipotesi 3: uno sguardo verso la Turchia

    C’è infine una opzione che guarda verso la Turchia, già presente a Taranto attraverso il gruppo Yilport, che ha in concessione il molo polisettoriale del porto cittadino.

    Si parla di un possibile interessamento all’impianto Ilva da parte del gruppo Oyak che controlla Ataer Holding, società che aveva avanzato una proposta di acquisto per le acciaierie British Steel, poi andate ai cinesi di Jingye.

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