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    “Ho denunciato il mio ex e rischio di perdere mio figlio”: la distorsione giudiziaria che colpisce le madri

    In Italia ci sono casi di donne che denunciano le violenze e perdono l'affido dei figli o la potestà genitoriale: un magistrato e una psicologa spiegano come nasce questa distorsione del sistema giudiziario, tra ctu e tribunali (e quale può essere la soluzione)

    Di Anna Ditta
    Pubblicato il 26 Lug. 2021 alle 17:03

    “Come è possibile che nel procedimento per l’affido di mio figlio abbia maggior peso la relazione di un consulente tecnico d’ufficio, uno psicologo che ci ha incontrato al massimo per 4 o 5 volte, senza contraddittorio e senza che siano richiesti riferimenti concreti alla realtà, piuttosto che una sentenza di primo grado che condanna suo padre per le violenze che ho subito durante la gravidanza e proseguite dopo la nascita del bambino?”.

    È questa la domanda che si pone Carla (il nome è di fantasia), una delle madri che rischiano di essere ritenute “alienanti” e di perdere l’affido del figlio minore o addirittura la potestà genitoriale dopo aver denunciato le violenze subite dal coniuge o dal compagno. Una distorsione del sistema giudiziario di cui si è parlato di recente, per il caso di Laura Massaro (qui la sua intervista a TPI nel 2019) colpita poche settimane fa da un provvedimento del tribunale dei Minori con cui il giudice ha disposto il prelievo forzato del figlio di 11 anni e la sua collocazione in casa famiglia per essere riavvicinato al padre, denunciato per molestie.

    Sono molte le storie simili che abbiamo raccontato in questi anni, da quella di Ginevra Pantasilea Amerighi a quella di Sabrina e a quella di Giada Giunti. Ma perché il sistema che dovrebbe tutelare e aiutare le donne che denunciano finisce invece per penalizzarle? TPI lo ha chiesto al magistrato Fabio Roia, presidente della sezione autonoma delle misure di prevenzione del Tribunale di Milano, che si occupa da molti anni del tema della violenza contro le donne, e alla psicologa Elvira Reale, responsabile del Centro Daphne dell’ospedale Cardarelli di Napoli, dove si occupa di vittime di violenza in pronto soccorso.

    Affido di minori nei casi di violenza domestica: il ruolo del giudice

    “Innanzitutto c’è un problema di trasmissione degli atti tra i diversi uffici giudiziari”, spiega Roia. “La legge sul Codice Rosso ha imposto la trasmissione degli atti che riguardano la vicenda penale ai giudici civili che devono decidere in tema di affido dei minori. Il segnale normativo è molto chiaro: bisogna dare attuazione all’articolo 31 della Convenzione di Istanbul. Si tratta di una norma sovranazionale, ma che è immediatamente applicabile nel nostro ordinamento per un principio di natura costituzionale”.

    “Questo articolo impone al giudice chiamato a decidere sull’affidamento dei minori di tenere in considerazione la situazione pregressa di violenza posta in essere dall’uomo nei confronti della donna. Lo scopo è che l’uomo e padre violento, prima di ristabilire il rapporto col figlio, risolva il suo problema attraverso un riconoscimento e una presa di coscienza di ciò che ha fatto”, prosegue Roia. “Ma questo non avviene quasi mai, perché il primo problema degli uomini violenti è che non si rendono conto di commettere un crimine, per un discorso culturale e per l’assenza di una decisa condanna sociale”.

    “Nella pratica, tuttavia, ci sono delle distorsioni del sistema, per cui molte volte i giudici civili non tengono in considerazione la situazione di violenza: la rifiutano, non la istruiscono, non l’approfondiscono o non la valutano”, spiega il magistrato, sottolineando che “molte volte entrano in gioco stereotipi per cui si pensa che se uno è stato violento con la partner non vuol dire che non sia un buon padre. Invece non è così”, chiarisce. “La convenzione di Istanbul dice proprio l’opposto: se io agisco violenza in una situazione in cui il minore assorbe o percepisce la violenza medesima, evidentemente non sono un buon padre, perché propongo al minore un modello di gestione del rapporto di relazione con la madre che è deviato, sbagliato, illecito. Questo è un problema culturale”.

    “Un’altra distorsione di prassi, secondo me”, prosegue Roia, “è il fatto che i giudici molto spesso delegano la decisione sull’affido, in questi casi, a consulenti tecnici di ufficio (Ctu), che magari aderiscono a determinate scuole di pensiero, come la Pas (Parental Alienation Syndrome o “sindrome da alienazione parentale”, ndr) che ormai è stata rifiutata dalla comunità scientifica. Se la decisione del giudice viene affidata a un ctu che aderisce a questa scuola di pensiero, si verificherà che una donna che ha subito violenza – e che magari vive uno scompenso emotivo, è in situazione di fragilità o di sofferenza, o presenta traumi – viene considerata non idonea per la protezione del minore, o comunque le si impone, in nome di un principio di bigenitorialità di attivarsi per far sì che il minore incontri il padre”.

    “Questa situazione”, aggiunge il giudice, “determina una forma di violenza secondaria sulla donna. Lei sicuramente non si sente serena a favorire questi incontri, e questo anche perché spesso il minore non vuole vedere il padre violento. Allora c’è questo ribaltamento per cui si dice: il minore rifiuta gli incontri col padre perché la madre agisce su di lui una sorta di lavaggio del cervello. Diventa una ‘madre manipolatoria‘ che utilizza il minore per interrompere il rapporto con il padre violento. Se le norme fossero applicate correttamente, invece, non arriveremmo mai a queste conclusioni aberranti“.

    Come dovrebbe operare invece il giudice, per non commettere questi errori? “Il giudice civile dovrebbe fare un’attività istruttoria per accertare – ad esempio a mezzo testimoni, o sentendo il minore – se c’è stata una situazione di violenza”, risponde Roia. “Se questa c’è stata e lui la accerta, deve decidere a quale genitore attribuirla – e generalmente è il padre – e avviare il genitore a un percorso di riconoscimento della violenza e programmare la ripresa dei rapporti tra genitore e figlio solo quando il padre ha riconosciuto il problema e magari l’ha superato. E questo a prescindere da un’eventuale condanna dell’uomo in sede penale”.

    Ma se il Ctu dice che la madre ha la pseudo-sindrome di ‘alienazione genitoriale’, chiediamo a Roja, il giudice può comunque decidere diversamente? “Assolutamente, deve farlo“, è la risposta. “Il consulente è un ausiliario del giudice, come l’assistente sociale che fa delle indagini socio-familiari sulla famiglia, ma il giudice può discostarsi: si deve riappropriare del potere-dovere di decidere. È sempre il giudice che deve decidere o meno l’idoneità dei singoli consulenti, che vengono scelti da un albo. Se un ctu non fa bene il suo lavoro, non lo si deve nominare più”.

    Per evitare che queste distorsioni del sistema continuino a ripetersi, secondo il magistrato, bisogna “puntare sulla formazione“. “Le leggi oggi ci sono, bisogna applicarle bene e fare uno sforzo culturale e di formazione”. Roia spiega che il Consiglio superiore della magistratura (Csm) “sta già facendo molto bene perché continua a mandare risoluzioni di indirizzo. Se i capi degli uffici, e in particolar modo i presidenti dei tribunali, fossero più sensibili a queste tematiche sul piano organizzativo e del controllo, credo che risolveremmo a breve tutti i problemi”.

    Il ruolo del consulente tecnico

    La psicologa Elvira Reale è responsabile del Centro Daphne dell’ospedale Cardarelli di Napoli, dove si occupa di vittime di violenza in pronto soccorso. Inoltre, è autrice con altre psicologhe del “Protocollo Napoli“, col quale cinque professioniste impegnate da anni nel lavoro di prevenzione/contrasto alla violenza sulle donne, hanno individuato una serie di criteri per la Consulenza psicologica nei procedimenti giudiziari di separazione/divorzio.

    “Quello della Ctu è un problema complesso, perché oggi abbiamo una scuola di psicologia giuridica e forense che ha sposato in pieno il criterio dell’alienazione parentale come costrutto che penalizza soprattutto le donne”, sottolinea l’esperta. “Le donne, in quanto più frequentemente in una prima fase dei procedimenti di affido genitori collocatari dei minori, secondo questa teoria, impedirebbero l’accesso del bambino al padre. Questa sorta di ostruzionismo viene qualificato come alienazione, indipendentemente dai motivi per cui una donna è ‘resistente’ al principio definito appunto da questi psicologici come criterio dell’accesso”.

    “Ciò non è altro se non la trasposizione del principio della bigenitorialità”, prosegue Reale, “che prevede che un bambino mantenga relazioni con ambedue i genitori dopo la separazione. Si tratta di un principio sancito dalla legge 54 del 2006 e successive, ma non è valido nel caso in cui la bigenitorialità comporti dei pregiudizi per il minore (ex art. 155bis del codice civile). Uno dei pregiudizi fondamentali è la violenza contro le donne, che per il minore si traduce sempre in maltrattamento assistito, il che comporta danni alla salute di un bambino equivalenti agli esiti di un maltrattamento diretto, secondo anche quanto affermato dalla letteratura e dagli organismi internazionali”.

    “Per questo, tutte le volte che ci sono evidenze o allegazioni di violenza, bisognerebbe presumere che il principio della bigenitorialità non valga, perché sarebbe un danno per il bambino”, spiega la psicologa. “Invece su questo c’è da un lato una grande ignoranza dei consulenti e anche dei giudici; dall’altra parte, nella peggiore delle ipotesi, si utilizza dolosamente questa teoria. Ormai, infatti, data la grande diffusione dell’argomento, non c’è secondo me solo la scarsa conoscenza, ma anche una mancata volontà di riconoscere questi temi, mantenendo un’interpretazione che vuole tenere separati la violenza sulle donne e l’affido dei minori“.

    “Penso che gli psicologi siano sicuramente formati e informati sul tema, ma che parteggino per una teoria che non riconosca/neghi la violenza sulle donne, considerando come più importante per lo sviluppo del minore la presenza di un padre anche se maltrattante la madre. In questi casi, il danno maggiore per lo sviluppo di un minore è considerato l’assenza del padre, ritenuto persino peggiore del maltrattamento assistito. Questo”, aggiunge Reale, “fa parte del pregiudizio secondo il quale la donna ha un minor valore nel sociale. Ha più valore un padre. Ma queste ipotesi teoriche sulla supremazia paterna nello sviluppo di un bambino non sono suffragate dalla scienza e vorrei dire inoltre, che se si dovesse giungere ad una teoria suprematista, la donna ha certamente oggi maggiori atout da giocarsi come perno dello sviluppo di un bambino, come curante ed anche come genitore protettivo, visto che il fenomeno della violenza in famiglia ha al 90 per cento circa gli uomini come autori”.

    Elvira Reale ricorda che le donne che subiscono violenza “sono più del 30 per cento della popolazione femminile nelle relazioni di coppia (dato Oms): quindi è un’epidemia vera e propria”. Questo, sottolinea, “deve avere risvolti notevoli anche sul tema dell’affido, tenendo presente l’articolo 31 della convenzione di Istanbul, che indica che le donne vanno protette insieme ai loro figli minori. Al contrario, noi abbiamo separazioni giudiziali che sono residue rispetto a quelle consensuali, l’Istat alcuni anni fa parlava del 14 per cento. L’affido esclusivo alle donne avviene poi nell’8 per cento dei casi: è chiaro che il dato non corrisponde all’epidemia della violenza contro le donne ed i bambini (vittime di maltrattamento assistito). Gli psicologi forensi non guardano nella direzione della violenza domestica e del maltrattamento assistito e la conseguenza è la distorsione delle decisioni giudiziarie sull’affido quando i giudici si allineano alle loro valutazioni tecniche (Ctu) incompetenti sul tema o addirittura negatorie del tema violenza”.

    Ma quale può essere la soluzione? “Attualmente ci sono delle liste di psicologi ferme alla specializzazione forense, si dovrebbe invece pensare a degli specialisti sul tema della violenza domestica, con un curriculum adeguato, comprovante soprattutto l’esperienza sul campo e l’adesione alla convenzione di Istanbul”, spiega Reale. “A Napoli, col Protocollo Napoli, abbiamo cercato di stabilire i criteri con cui si devono affrontare ctu e ctp: cosa fare e cosa non fare, quando vi sono allegazioni di violenza”.

    Un altro suggerimento è quello che riguarda i “bollini rosa” ai Tribunali. Reale spiega di cosa si tratta: “Sulla violenza contro le donne ci sono una serie di percorsi dedicati, ad esempio quello negli ospedali (codice rosa), e lo stesso percorso teorico-pratico di protocollo Napoli, il codice rosso nelle procure ha questo stesso intendimento. L’idea allora sarebbe quella di attribuire un ‘bollino rosa’, una sorta di marchio di qualità/competenza anche ai tribunali che praticano e riconoscono la convenzione di Istanbul e stabiliscono, come sta avvenendo per esempio a Terni col giudice Velletti, dei percorsi dedicati nei casi in cui emergono allegazioni varie di violenza, con un percorso personalizzato, specializzato che focalizza il problema della violenza contro le donne, da cui far derivare a cascata i vari atti e provvedimenti”.

    In questo momento, racconta Reale, “l’Ordine degli psicologi non si sta attivando in prima persona sul tema”, anche se talvolta accoglie le iniziative di gruppi di psicologi. “A Napoli, per esempio, l’Ordine ha recepito il protocollo Napoli, ma poi cerca di non contrastare la psicologia forense, che è molto diffusa ed è composta da personaggi che hanno delle scuole private fiorenti, e dunque molteplici interessi economici in questo ambito”.

    “Sinceramente per una ipotesi di cambiamento culturale ho più fiducia nel cambio della magistratura, piuttosto che nel cambiamento degli psicologi”, dice Reale. “I magistrati, per loro formazione, dovrebbero avere l’idea di non operare discriminazioni e disparità e dovrebbero essere più sensibili al rispetto di leggi e convenzioni. Quindi forse, se adeguatamente formati o richiamati al rispetto delle convenzioni internazionali, potrebbero operare un cambio di passo e smarcarsi dall’abbraccio mortale di questa psicologia forense”.

    “Per quanto riguarda gli psicologi, quando si sono formate scuole che propugnano determinati costrutti, è più difficile ottenere da loro un cambiamento spontaneo o attraverso una formazione alternativa”, aggiunge. “Questo cambiamento in psicologia riguarderebbe non solo il superamento della pseudo-diagnostica dell’alienazione, ma anche il trattamento dei bambini. Il prelievo forzoso del minora, l’allontanamento dalla madre, l’assegnazione in struttura, l’esclusione degli incontri con la madre: sono tutti trattamenti sanitari occulti proposti da psicologi e in qualche modo avallati dall’autorità giudiziaria. Viene anche operato a valle del prelievo coercitivo un trattamento sotterraneo di condizionamento e ricondizionamento“.

    “Ciò non è altro chela riproposizione del trattamento propugnato di Gardner, autore della Pas”, spiega la psicologa. “Anche se non si parla di alienazione genitoriale, se un bambino rifiuta il padre, magari solo perché è autoritario o ne ha paura, a quel punto si agisce comunque in maniera coercitiva sui bambini, in maniera traumatica, e questo è contrario a qualsiasi deontologia. Lo psicologo è un operatore sanitario, e il primo requisito di un trattamento sanitario deve essere Primum non nocere, ‘innanzitutto non nuocere’. Imporre un trauma a un bambino per poi fargli avere un presunto futuro beneficio, che deriva dall’essere riconciliato al padre tramite l’allontanamento dalla madre, è sbagliato, ascientifico e illegittimo“.

    Per Reale, agire in questo modo “significa operare una sostituzione di genitore, come se il padre potesse garantire meglio lo sviluppo di un minore, rispetto alla madre, e ignorare i desideri del minore, quanto lui chiede o chiederebbe se fosse ascoltato dal giudice, come sarebbe suo diritto, ma cosa che raramente accade”. 

    “Se venisse propriamente definito come trattamento sanitario (quale esso è nei fatti) ciò sarebbe illegale”, prosegue Reale, “perché questi trattamenti coercitivi sono possibili solo in alcuni casi, disciplinati dalla legge 833 del 78. Al difuori da tale legge, i bambini possono essere prelevati in questo modo solo nei casi di emergenza e urgenza, quando sono in pericolo (art. 403 codice civile). Non è questo il caso quando si parla impropriamente di violazione della bigenitorialità e di ostacolo della madre all’accesso al padre. Qui si tratta di bambini integrati, che vanno a scuola, ben curati ed amati, non certo in pericolo. Solo che non vogliono vedere i padri, e questo non è un reato. Infatti gli psicologi, arrampicandosi sugli specchi, parlano di rischio evolutivo futuro”.

    “Quindi la pratica del prelievo in questi casi è illegale da tanti punti di vista, sanitario e giudiziario”, sottolinea l’esperta. “Poi se questo riguarda le donne che denunciano violenza questo equivale ad avvertirle che non devono denunciare. Le donne nei casi di violenza sicuramente non hanno un buon rapporto col padre dei loro figli, tant’è che lo denunciano, e allora perché sono colpevolizzate per questo?”, si chiede. “Viene attribuita loro la responsabilità del fatto che il bambino non vuole vedere il padre, quando quel bambino ha assistito a scene di violenza ed ha paura del padre. Sarebbe tutelante allontanarlo da quel padre, fin quando questi non riconoscesse il danno e si sfilasse dalla guerra intrapresa contro la ex-partner per sottrarre il figlio alla sua tutela”.

    “Questo andamento che vuole che le donne che subiscono violenza siano penalizzate nell’ambito dei procedimenti civili per l’affido (la c.d. vittimizzazione secondaria) dissuade le donne dalla denuncia, cosa che invece dovremmo incoraggiare, per evitare i femminicidi e le violenze gravi”, sostiene Reale. L’80 per cento circa delle donne vittime di violenza che assistiamo in pronto soccorso al Cardarelli sono madri con figli minori, quindi sono estremamente sensibili al tema dell’affido. Se a queste donne non si garantisce l’affido dei minori noi le perdiamo, diventano invisibili. Non solo la violenza resta invisibile, ma le donne si invisibilizzano, smettono di chiedere aiuto, se non garantiamo loro un processo civile giusto per l’affido”.

    “Tutto quello che sta succedendo”, ribadisce, “allontana le donne dalla denuncia e le mette in clandestinità, ma anche in pericolo insieme ai loro figli. Così si fa veramente un danno alla società. Ricordiamoci sempre, sull’importanza del contrasto alla violenza contro le donne, quanto ha affermato la banca mondiale nel 2015: per sconfiggere la povertà nel mondo bisogna sconfiggere la violenza contro le donne. Non combatterla sarebbe un danno incalcolabile per l’umanità”.

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