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    “In Puglia rischiamo una nuova Bergamo, dovremo scegliere chi intubare”: parla il presidente dei rianimatori

    Credit: Emanuele Fucecchi
    Di Pierfrancesco Albanese
    Pubblicato il 22 Nov. 2020 alle 11:05 Aggiornato il 23 Nov. 2020 alle 13:31

    “La scelta di prorogare la zona arancione in Puglia è pessima. Da quando ci hanno assegnato il colore secondo la ripartizione nazionale abbiamo assistito a un aumento esponenziale dei contagi giornalieri e soprattutto dei pazienti ricoverati in terapia intensiva. Noi medici siamo consci della drammaticità della situazione: a breve dovranno dirci cosa fare con chi resta fuori dalle terapia intensive”.

    Sono queste le parole con cui Antonio Amendola, presidente dell’associazione dei medici e rianimatori e dirigente medico presso il Policlinico di Bari, commenta a TPI la proroga della zona arancione in Puglia. È giunta nella mattinata di venerdì, infatti, la firma del Ministro della Salute Roberto Speranza sull’ordinanza che di fatto congela le misure previste per sei regioni – Puglia compresa – e respinge la richiesta di chiusura di sole due province (Foggia e Bat) avanzata dal presidente di Regione Michele Emiliano.

    Già nella serata di giovedì, il Ministro per gli affari regionali, Francesco Boccia, aveva avanzato delle riserve sulla richiesta di estendere la zona rossa a due sole province, preferendo invece una stretta uniforme. Con la firma di venerdì è arrivato il niet definitivo: nessuna stretta o chiusura selettiva. La zona resta arancione, almeno per il momento.

    Decisione accolta con scetticismo da molti, tra cui il presidente dei medici anestesisti e rianimatori: “Mi piacerebbe capire se e quanto ha influito sulla decisione il peso economico dei ristori da garantire alle attività maggiormente colpite dalle misure restrittive da zona rossa”, il suo commento. “Tutti qui sappiamo che la zona doveva essere rossa da tempo: non capisco come, numeri alla mano, ancora possano esserci le condizioni da zona arancione”.

    Ormai da settimane, infatti, i medici pugliesi chiedono al governo centrale e regionale misure più restrittive per allentare la pressione sugli ospedali. Filippo Anelli, presidente dell’ordine dei medici di Bari, ha parlato di una sanità regionale in guerra. Alludendo anche ad alcune regole che medici e anestesisti si sarebbero dati per scegliere quale paziente trattare in caso di mancanza di posti letto. Già nelle scorse settimane, sempre da Bari, è arrivato l’allarme del direttore del servizio di emergenza, Gaetano DiPietro, secondo cui negli ospedali del barese giungono anche 2.400 chiamate d’emergenza al giorno.

    Negli ultimi giorni, dopo un valzer iniziale, anche la voce del neo-assessore alla salute Pierluigi Lopalco si era unita al coro di chi chiedeva un lockdown generalizzato. Nonostante la Regione abbia poi virato sulla richiesta di chiusura selettiva, non accolta dal governo. “La situazione è già drammatica e i contagi continuano a salire – è il commento di Antonio Amendola a TPI – Se veniamo costretti, noi abbiamo un documento concordato dalla federazione nazionale dell’ordine dei medici e dalla nostra più importante società scientifica: se io ho un solo posto e due, tre pazienti che attendono sono costretto a scegliere chi intubare. È questo un rischio concreto e vicino. Oggi il sistema regge a stento grazie a tutto il personale medico. In prospettiva temo che a distanza di pochissimo tempo saremo di fronte a un crollo strutturale e tragicamente potremmo trovarci dinanzi a scelte che nessuno vorrebbe fare”.

    L’equilibrio – secondo il dirigente – si regge su fili sottili. Nel quadro d’insieme occorre considerare vari elementi: l’emergenza, a differenza della prima ondata, colpisce tutta la nazione e molti paesi europei. I trasferimenti di pazienti da una struttura satura a una con posti letto a disposizione risulta quindi sempre più difficile. Lo si vede bene in Puglia, dove nelle ultime settimane pazienti Covid sono stati trasferiti dalle province di Foggia e Bari all’ospedale Vito Fazzi di Lecce, da dove sono stati smistati presso nosocomi di provincia, salvo poi tornare all’ospedale di Lecce per mancanza delle attrezzature necessarie a fronteggiare l’aggravarsi delle loro condizioni.

    In Puglia, infatti, la pressione sugli ospedali è forte. Secondo i dati Agenas, il 45% dei posti in terapia intensiva è occupato dai pazienti Covid. Ben oltre la soglia del 30% indicata dal ministero come limite oltre il quale può parlarsi d’emergenza e di poco superiore alla media nazionale, ferma al 43%. In Regione, secondo la fondazione Gimbe, un tampone su quattro è positivo. Ma negli ultimi giorni qualcuno ha puntato l’attenzione sulla riduzione dei contagi.

    Non Antonio Amendola, che fa notare come occorra parlare non di riduzione della curva dei contagi, ma di riduzione del loro aumento. “Bisogna considerare anche che non esiste solo il Covid. Tra gli intubati ci sono molti pazienti non Covid. Ma io non posso metterne uno Covid accanto a uno che è qui per altre patologie. Ecco perché la saturazione del 45% attesta la drammaticità della situazione”.

    Poi l’analisi dei dati e lo spettro di una nuova Bergamo. “Quando si vede un abbassamento del numero dei positivi e un incremento dei morti si può pensare che si stia riproducendo la situazione della bergamasca: lì a un certo punto i pazienti non entravano più in ospedale. Morivano a casa. È questo lo scenario da scongiurare, ma verso il quale siamo diretti senza le adeguate restrizioni”, spiega il presidente dei medici anestesisti e rianimatori.

    Che punta il dito anche sulla gestione del periodo estivo, con i proclami a fare le vacanze senza restrizioni e a risollevare l’economia, ma senza le dovute attenzioni alla prevenzione in vista della seconda ondata. Il risultato è presto detto: la riproduzione delle problematiche già incontrate nella prima ondata. Emblematica la situazione campana, dove ora c’è l’ossigeno ma non le bombole necessarie per il suo utilizzo, come accaduto nella bergamasca lo scorso aprile.

    “Potevamo fare molto di più in vista della seconda ondata. Non c’è stato nemmeno l’approntamento di un programma per un contact tracing efficiente e generalizzato sul modello orientale”, continua Amendola. “In compenso – conclude – c’è stata l’apertura delle discoteche. Se si lancia un cerino nella benzina, all’inizio prenderà fuoco un piccolo rivolo. Se poi non si spegne subito il rivolo, prenderà fuoco il resto e si arriverà ai bomboloni di benzina o alla foresta. È questo quanto accaduto qui. Abbiamo lasciato che le persone facessero le vacanze dappertutto. Che andassero in discoteca. Che incontrassero poi i parenti. Ora ne paghiamo le conseguenze”.

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