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    Il lavoro sta cambiando. Per proteggere davvero i lavoratori, devono cambiare anche i sindacati

    Credits: ANSA/MASSIMO PERCOSSI
    Di Michele Magno
    Pubblicato il 8 Lug. 2020 alle 13:27 Aggiornato il 8 Lug. 2020 alle 13:28

    Dopo il Coronavirus il lavoro sta cambiando: devono farlo anche i sindacati

    Nei giorni scorsi, il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri è stato tra i pochi a mettere il dito nella piaga. Non possiamo limitarci – ha affermato – a prorogare illimitatamente la cassa integrazione e il blocco dei licenziamenti per tutti. Occorre affrontare i problemi che questi strumenti non possono risolvere. Già, ma come? Su un punto le forze della maggioranza concordano, ovvero sulla riforma non più rinviabile degli ammortizzatori sociali. Già, ma quale? La risposta a queste domande implica non solo risorse finanziarie cospicue per sostenere il reddito dei disoccupati, il cui numero è destinato a crescere con il Pil in picchiata a causa del Coronavirus. Presuppone, anzitutto, un’idea non approssimativa delle tendenze e delle trasformazioni possibili del mitico “modello di sviluppo” nazionale.

    Detto altrimenti, quando pensiamo al futuro del lavoro, a cosa pensiamo? A fabbriche popolate solo di automi che si muovono freneticamente? Ai professionisti delle “Stem” (scienza, tecnologia, engineering e matematica) che diventano il cuore pulsante dell’impresa? All’intelligenza artificiale che si sostituisce all’intelligenza umana? A un algoritmo che taglia senza pietà costi e manodopera?

    Sono scenari apocalittici, che servono ai neoluddisti del terzo millennio per contestare una verità elementare, ossia che ogni rivoluzione tecnologica comporta la nascita di lavori nuovi e – parallelamente – la trasformazione di vecchi lavori, determinandone anche la marginalità o la scomparsa. Ovviamente, non è qui possibile compilare un elenco dei nuovi mestieri legati alla rivoluzione informatica in corso. Mi limito a citare un esempio emblematico: il “Mechanical Turk” di Amazon, che fa riferimento al celebre turco meccanico creato nel 1769 da Wolfgang von Kempelen per l’imperatrice Maria Teresa d’Austria, un finto automa in grado di giocare a scacchi all’interno del quale si celava un nano che ne manovrava le mosse.

    Si tratta di una piattaforma di “crowdworking” (da “crowd”, folla, e “working”, lavoro), che collega chi offre lavoro con un esercito di consulenti globale, disponibile on-line giorno e notte, sette giorni su sette. Non è difficile cogliere in questo portale la persistenza di un taylorismo sui generis: ogni ordine inviato online mobilita i dipendenti impiegati nei magazzini (ma già oggi affiancati da minuscoli robot) in percorsi lunghi chilometri, con assegnazione di compiti parcellizzati, gestiti e monitorati grazie alla rete e a modelli di business che poggiano su una dura e gerarchica divisione del lavoro (spesso mal retribuito).

    Il sindacato si sta impegnando sul serio per affiliare e proteggere questi lavoratori? Senza negare i passi in avanti compiuti su questo terreno, sono convinto che non sia più procrastinabile la ricerca di una tutela e di una rappresentanza “post-novecentesca”. In questo senso, la regolazione dei lavori – il plurale è d’obbligo – deve cominciare dal mercato, ossia prima che il lavoratore trovi un impiego: infatti il sindacato confederale sorse per difendere gli iscritti che volevano trovarsi e mantenere un impiego. Adesso si attiva soprattutto quando il lavoratore si è già trovato il posto, sta per perderlo o lo ha perduto, cosicché in paesi come il nostro non per caso è più forte tra i pensionati che tra gli attivi.

    Si può obiettare: come, il sindacato deve tornare a difendere i lavoratori sul mercato del lavoro prima che nel rapporto di lavoro? Come nell’Ottocento? Questo ritorno al passato può sembrare paradossale, ma è logico. Perché il secolo della diversificazione somiglia di più a quello dell’eterogeneità, quando il salariato veniva assistito proprio nei complicati passaggi sul mercato del lavoro, dove era più inerme e insicuro. Le prospettive della rivoluzione digitale restano problematiche, sia chiaro. La cosiddetta economia della conoscenza può essere caratterizzata sia da zone grigie tra autonomia e nuove forme di asservimento, sia da condizioni che valorizzano la responsabilità, la creatività, la partecipazione della persona che lavora. La seconda prospettiva richiede idee e lotte credibili, lontane dall’estetismo spontaneista della cultura del conflitto.

    Richiede, inoltre, che il movimento sindacale non resti frastornato, diviso e incerto di fronte a novità che sembra minacciarlo, ma che non basta esorcizzare o maledire. Vedere la storia come un susseguirsi di fregature e di tradimenti, per cui il mondo migliore è sempre quello che non c’è, significa consegnarsi all’irrilevanza politica nel mondo che c’è.

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