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    Il paradosso dei caschi CPAP per aiutare i pazienti affetti da Coronavirus a respirare: “Vanno riutilizzati”. Ma sono bombe microbiologiche

    Di Franco Bagnasco
    Pubblicato il 21 Mar. 2020 alle 00:11 Aggiornato il 21 Mar. 2020 alle 08:14

    Al fronte, in prima linea, a margine delle terapie intensive dei fortini ospedalieri che combattono la quotidiana, difficile (spesso disperata) lotta al Covid-19, c’è una circolare che fa discutere i medici. L’hanno ricevuta pochi giorni fa, il 15 marzo, e noi ve la mostriamo. Invita il personale a effettuare una “procedura per il ricondizionamento dei caschi CPAP”. Ovvero richiede esplicitamente il loro riutilizzo dando anche istruzioni per il lavaggio. Che cosa sono i CPAP? Si tratta di involucri resistenti realizzati in plastica morbida trasparente all’interno dei quali si infila la testa del paziente per dargli la necessaria ventilazione surrogata. Si fissano gonfiando un collare all’altezza del collo. Sono utilizzati in diverse patologie respiratorie oltreché nell’infezione da Coronavirus e consentono in molti casi di evitare l’intubazione del soggetto sottoponendolo a una ventilazione meccanica più invasiva. Permettono di evitare la sedazione e lasciano posti letto e macchinari ai casi più gravi.

    La circolare ai medici contenente le procedure di ricondizionamento dei caschi CPAP

    Sono prodotti che (come indicano in modo chiaro le istruzioni, per esempio quelle della DimAir, una delle aziende produttrici) andrebbero sempre gettati dopo l’utilizzo. Per ragioni igieniche non è previsto un ricondizionamento, cioè l’uso su un nuovo paziente. Al massimo si possono lavare transitoriamente – con tutte le cure del caso per chi li tocca – e poi calzare alla stessa persona. Dopo l’uso vanno smaltiti perché di fatto sono un ricettacolo di germi tra i più vari, non soltanto il Covid-19. Invece la situazione in questo momento è emergenziale, e a quanto pare ha imposto ai vertici della Sanità una decisione che molti medici non condividono o giudicano sconveniente. Di qui la richiesta di riutilizzo dei CPAP, presenti evidentemente in numero insufficiente nei nosocomi italiani.

    Nettamente contrario il dottor Gabriele Gallone, medico del lavoro a Orbassano e membro dell’esecutivo nazionale di ANAAO ASSOMED. Li definisce “bombe microbiologiche”. Poi entra nel dettaglio: “Il casco è di plastica monouso. Ma non lo dico io: lo dicono i rianimatori e gli pneumologi dotati di senno e soprattutto lo dicono le ditte produttrici. Non puoi prendere un casco CPAP anche di un paziente che ha solo la bronchite ostruttiva cronica, lavarlo e metterlo in testa a un altro paziente. Il casco CPAP utilizzato da un paziente COVID-19+ a maggior ragione va smaltito immediatamente facendo molta attenzione a maneggiarlo e verificando che il camice idrorepellente non sia stato contaminato. Dentro quel casco, tra parentesi, non ci troviamo solo il coronavirus ma molti altri batteri, alcuni micidiali, che comunque costituiscono una ulteriore complicazione sovrainfettiva di molti di questi pazienti”. La conclusione è amara: “A leggere questa lettera, per chi è addetto ai lavori” conclude Gallone “c’è da restare esterrefatti, basiti, ci si mette le mani nei capelli. Si pensa a uno scherzo. La situazione richiede di fare cose contrarie al buon senso senza interessarsi minimamente degli operatori che le dovrebbero effettuare”.

    Ciò che sottolinea il medico è la pericolosità nel trattamento/ricondizionamento di questi caschi anche a tutela della salute di chi si trova costretto a maneggiarli/sanificarli una volta utilizzati dal primo paziente. Di opinione diversa, pur con tutti i distinguo, è Francesca Marras, anestesista presso l’ospedale di Oristano: “Purtroppo c’è penuria anche di questo tipo di caschi e sono difficili da reperire”, spiega. “Sono situazioni brutte nella quali non ci si vorrebbe mai trovare. Dipende dal calcolo rischi-benefici. Se lo scenario è di guerra, se si tratta di dover salvare una vita, te la giochi al 50% e magari qualcuno corre il rischio invece di perdere una persona. Dove lavoro per fortuna non esiste questo problema, ma comprendo chi lo fa. Se l’alternativa è morte certa si può pensare di fare una cosa che è assolutamente sbagliata, perché da scheda tecnica non si può assolutamente fare e non va fatto, lo dico in modo chiaro. Però in guerra tutto è concesso”.

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