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“Vola solo chi osa farlo”: il genio anarchico e sognatore di Luis Sepùlveda

Di Franco Bagnasco
Pubblicato il 16 Apr. 2020 alle 15:25 Aggiornato il 16 Apr. 2020 alle 16:30

“Vola solo chi osa farlo”: il genio anarchico e sognatore di Luis Sepùlveda

“Vola solo chi osa farlo” è forse la sua frase più emblematica. Che racchiude di certo la sua vita ma anche milioni di altre. Lo spartiacque tra chi è solito fare (concludendo) e chi è uso guardare (inconcludendo). È l’epitaffio perfetto per il genio di Luis Sepùlveda, che ci ha lasciato oggi nell’ospedale di Oviedo, in Spagna, per Covid-19 dopo alcune settimane tormentate. Il passo d’addio dello scrittore i cui titoli spesso partivano dalla suadente e ammiccante parola storia. Come nella versione originale de “La gabbanella e il gatto”, la sua pagina senza dubbio più popolare. Quanto si possono amare, queste benedette storie?

Lo scrittore, giornalista, sceneggiatore cileno, nato a Ovalle il 4 ottobre 1949 e trasferitosi nel ’96 a Gijòn, in Spagna, nelle Asturie, dopo aver vissuto anche ad Amburgo, Parigi e da ragazzo a Mosca (il posto dove rimase meno, perché a quanto pare ebbe l‘insana ma testosteronica idea di intavolare una relazione con la moglie del direttore dell’Istituto ricerche marxiste), ha avuto una vita a dir poco piena: lasciato il Cile dopo essere stato ingabbiato da Pinochet a seguito della sua attività politica, ha iniziato a girare in lungo e in largo imbarcandosi anche su alcune navi di Greenpeace.

Luis Sepùlveda, un uomo a dir poco instancabile

Anarchico, idealista, sognatore, amante dei grandi romanzi e delle grandi penne che li confezionavano, pubblicò il suo primo libro, «Il vecchio che leggeva romanzi d’amore», in Spagna, nel 1989. Testo che uscì in Italia quattro anni dopo. Agli inizi, in Cile, si iscrisse guarda caso alla Gioventù comunista ma fu poi cacciato e trovò riparo in Bolivia. Rientrato nel suo Paese aderì al Partito Socialista e anche alla guardia personale (il famoso GAP, Grupo de Amigos Personales) del presidente Allende. Dopo il colpo di stato del Generale Pinochet finì in prigione per sette mesi in una micro cella asfittica dalla quale uscì soltanto grazie alle pressioni di Amnesty International. L’ergastolo fu commutato in otto anni d’esilio. Non era più aria.

Nel ’77 la Svezia gli garantì l’asilo politico, e prese il volo per Stoccolma, ma lungo il tragitto, al primo scalo a Buenos Aires, pensò bene di fare a tutti metaforicamente il gesto dell’ombrello e di puntare prima su San Paolo, in Brasile, poi sul Paraguay, con destinazione finale Uruguay, dove visse per mesi a contatto con gli indios nativi. Ma il penultimo domicilio sudamericano fu in realtà Quito, in Ecuador. Sepùlveda era uomo a dir poco instancabile, anche perché un anno dopo, non pago, raggiunse le brigate combattenti di Bolivar in Nicaragua. Un peregrinare che un giorno gli fece dire, da esperto: “L’America latina confina a Nord con l’odio, e non ha altri punti cardinali”. Abituato ai fallimenti, aveva anche ben compreso come da essi potesse trarre lezioni vitali.

Prima autore teatrale, poi radiofonico, infine giornalista (sicuramente in questa veste deve aver sfornato: «Un professionista non se la prende mai con un cretino», molto longanesiana) e da ultimo scrittore. Con 32 lavori all’attivo. L’ultimo del 2018: “Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa”. Diceva, con rara saggezza: “Non serve a niente una porta chiusa: la tristezza non può uscire e l’allegria non può entrare”. La mia preferita però viene da un ironico dialogo: “Preparami un eufemismo, fratello! Un che?, chiese il barista. Un Cuba libre”.

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