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    L’ecologismo sta fallendo perché è percepito sempre più come un movimento di élite, e la Cop24 lo dimostra

    Dietro il parziale fallimento della Conferenza sul clima c'è un problema più ampio: i populisti hanno fatto credere che la transizione green danneggi le fasce più deboli della popolazione, che in assenza di una narrazione alternativa non considerano l'ecologismo una priorità

    Di Luca Serafini
    Pubblicato il 17 Dic. 2018 alle 12:49 Aggiornato il 12 Set. 2019 alle 02:49

    La Cop24, la Conferenza sul cambiamento climatico che si è tenuta a Katowice, in Polonia, si è conclusa con accordi giudicati poco incisivi dalla principali Ong che si occupano di ambiente (qui il nostro articolo che spiega gli impegni presi durante la Conferenza).

    “Si è scavato un fossato tra la realtà dei cambiamenti climatici descritta dalla scienza, con le sue conseguenze drammatiche per le popolazioni di alcune regioni del mondo, e l’azione politica”, è stato il commento di Greenpeace.

    Le acrobazie diplomatiche per mediare tra le istanze dei vari attori della conferenza hanno partorito, nella sostanza, compromessi al ribasso.

    Un minimalismo bollato dagli attivisti come il frutto del disinteresse dei governi e delle élite rispetto alle conseguenze, potenzialmente disastrose, del cambiamento climatico, in nome della difesa di interessi economici nazionali.

    Una narrazione che, però, ad una più attenta analisi della situazione risulta quantomeno parziale. A giudicare non più prioritarie le istanze legate al clima, infatti, non ci sono solo “i potenti”, politici o big della finanza che siano.

    Sono gli strati più deboli della popolazione a ritenere, in molti casi, socialmente non sostenibile la corsa all’economia green. In quest’ottica, i governi ostili alla riduzione di emissioni di gas serra cavalcano un argomento avvertito come prioritario anche dai loro elettori: l’ecologia costa, blocca la crescita e penalizza soprattutto i più poveri.

    Il populismo anti-ecologico è diventato ormai un movimento trasversale, che salda le istanze di presidenti come Trump o di grandi multinazionali con le proteste di chi si sente emarginato, in balia della globalizzazione e degli squilibri che questa produce.

    Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti: in Francia il movimento dei gilet gialli è nato proprio per protestare contro la tassa di Macron che alzava il prezzo della benzina, prevista dal governo all’interno di un piano per la transizione energetica del paese.

    Macron ha dovuto fare marcia indietro, riconoscendo nella sostanza come quella tassa non fosse economicamente sostenibile dalle fasce più disagiate della popolazione.

    La rinuncia all’ecotassa in Italia, inizialmente prevista nella legge di bilancio dal governo M5s-Lega, ha seguito lo stesso canovaccio. L’imposta, con ogni probabilità, verrà applicata solo alle auto di lusso, evitando così di penalizzare chi non può permettersi il passaggio a un’auto elettrica.

    Il Movimento Cinque Stelle, così come era accaduto per la Tap e l’Ilva, ha dovuto sacrificare ancora una volta le istanze dell’ala ambientalista, provocando tra le altre cose le ire di Beppe Grillo.

    Come riportato in un articolo de La Stampa, infatti, Grillo è allarmato per l’arretramento del M5s sulle questioni ecologiche, che coinvolge anche i condoni edilizi e la riduzione dei limiti per lo smaltimento dei fanghi da depurazione sui suoli agricoli.

    Se le promesse disattese su Ilva e Tap hanno causato la rivolta degli attivisti pentastellati più direttamente interessati, anche per fattori geografici, a quei temi, più in generale la sensazione è che le battaglie ecologiste vengano ormai avvertite come elitarie, ampiamente sacrificabili in nome delle urgenze vere come il sostegno al reddito.

    Il tutto, a maggior ragione, quando ecologismo e lotta alla povertà vengono percepiti come istanze in contrasto tra loro.

    Il populismo anti-ecologico, del resto, è stato uno dei tanti fattori che hanno portato alla vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali statunitensi del 2016.

    Durante la campagna elettorale, infatti, Trump martellò sulla necessità di salvare i posti di lavoro nell’industria del carbone a fronte della volontà, espressa da Hillary Clinton, di proseguire sulla strada tracciata da Obama verso l’economia green (bandiera dei Democratici fin dai tempi di Al Gore).

    Poco importa che la stessa Clinton proponesse di ricollocare i minatori nel settore delle rinnovabili. Trump venne appoggiato (e finanziato) dalle lobby del settore, ma il suo messaggio fece breccia soprattutto tra i cittadini di stati, come Pennsylvania, West Virginia e Kentucky, la cui economia dipende in misura significativa dall’industria del carbone.

    Anche in quel caso, quindi, i costi della transizione ecologica sono stati considerati dalle fasce più deboli della popolazione, a torto o a ragione, economicamente non sostenibili.

    L’ambiente, insomma, nella percezione comune sembra scivolare progressivamente (e pericolosamente) all’interno di quella nebulosa di cui fanno parte diritti considerati “non necessari” dalle masse impoverite.

    I diritti del pianeta e delle generazioni future, così, vengono risucchiati nel risentimento anti-borghese in cui sono finiti già da tempo i diritti civili, considerati nel migliore dei casi orpelli che distolgono l’attenzione dai problemi reali, nel peggiore come rivendicazioni di un’élite globalista in diretta continuità ideologica con la liberalizzazione selvaggia dell’economia e della società che spolpa i lavoratori.

    Chi vede le disuguaglianze aumentare, in ultima analisi, e spera magari in una svolta socio-securitaria, sovranista e in alcuni casi assistenzialista, ha un orizzonte di attesa brevissimo, mentre gli accordi sul clima parlano di impegni da attuare entro la fine del secolo.

    Il futuro del pianeta è un’istanza di natura etico-morale che, detto in termini brutali, non dà da mangiare.

    Va da sé che per modificare questo sentire comune servirebbero politiche incisive portate avanti dai principali attori sovranazionali, Unione Europea in primis, proprio ciò che al momento sembra mancare.

    Se la transizione ecologica non si coniuga con la percezione delle protezione del posto di lavoro (e delle proprie tasche), la narrazione populista avrà il sopravvento anche sul clima, proprio perché considerata l’unica in grado di assicurare benefici e sicurezza sociale nell’immediato. Vero o falso che sia.

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