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Marcell Jacobs: “Odiavo mio padre per essere scomparso, ho ribaltato la prospettiva”

Di Anton Filippo Ferrari
Pubblicato il 2 Ago. 2021 alle 08:07 Aggiornato il 2 Ago. 2021 alle 08:11

“Non doveva andare così nemmeno nei miei sogni più sfrenati. Sapevo di essere in condizione, sono rimasto concentrato su me stesso. Dei rivali mi sono accorto solo al traguardo”. Marcell Jacobs, neo campione olimpico dei 100 metri, l’uomo più veloce del mondo, è entrato nella storia. Primo italiano a vincere i 100 metri alle Olimpiadi. Un ragazzone nato in Texas da papà americano e mamma bresciana che vive nel nostro paese da quando aveva appena 18 mesi.

Una storia incredibile: dalla dura decisione di scegliere tra salti e velocità per non rischiare di farsi troppo spesso male alla medaglia d’oro alle Olimpiadi nei 100 metri. In mezzo tante delusioni e arrabbiature. “Ho incontrato una brava mental coach, Nicoletta Romanazzi, che è entrata nel mio team insieme al mio storico allenatore Paolo Camossi – ha raccontato Marcell -. Con lei ho accettato di lavorare in profondità sulle mie paure e sui miei fantasmi. Non è stato facile: c’è una parte intima che non vogliamo mostrare nemmeno a noi stessi. Però imparo in fretta. Il lavoro psicologico è iniziato a settembre dell’anno scorso e in sei mesi ho ottenuto un oro europeo indoor, il 9”95 di Savona, i tre record italiani ai Giochi e l’oro olimpico in 9”80”. Risultati mostruosi. Storici per il nostro Paese che mai aveva preso parte a una finale olimpica dei 100 metri. “È il mio anno, i record possono anche essere battuti ma la medaglia non me la toglie nessuno ed è destinata al muro del salotto di casa, dove si possa vedere bene. Mi sono chiesto: ma cosa hanno gli altri che io non ho? Niente, mi sono risposto”. Da piccolo voleva diventare archeologo (“mi piacevano i fossili”) o astronauta ma il suo destino era un altro: diventare l’uomo più veloce del mondo.

Il rapporto con il papà

La trasformazione dell’atleta ha seguito, di riflesso, quella dell’uomo. Marcell ha messo da parte la rabbia nei confronti del padre che lo lasciò a El Paso a pochi mesi per andare in Corea con l’Us Army. “A 18 mesi ero in Italia, i miei figli sono nati qui. Mi sento italiano in ogni cellula del mio corpo. Mio padre, da bambino, non lo ricordo. Dal momento in cui con mamma siamo rientrati dal Texas, è cominciata la nostra personalissima sfida a due. A scuola ero in difficoltà. Disegna la tua famiglia, mi diceva la maestra: io avevo solo mia madre da disegnare e ci soffrivo. Chi è tuo papà, mi chiedevano gli amici: non esiste, rispondevo, so a malapena che porto il suo nome. Per anni ho alzato un muro. E quando mio padre provava a contattarmi, me ne fregavo”.

“È incredibile la potenza dell’energia che si muove quando abbatti un muro – ha proseguito Marcell Jacobs -. Lo odiavo per essere scomparso, ho ribaltato la prospettiva: mi ha dato la vita, muscoli pazzeschi, la velocità. L’ho giudicato senza sapere nulla di lui. Prima se una gara non andava bene davo la colpa agli altri, alla sfortuna, al meteo. Adesso ho capito che i risultati dipendono solo dal lavoro e dall’impegno”.

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