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Basket, Emanuel Ginobili si ritira: gracias, Manu

Manu Ginobili con la maglia dei San Antonio Spurs

A 41 anni si ritira uno dei più grandi giocatori di basket della storia: Manu Ginóbili. Gli inizi in patria, le vittorie in Italia, poi le 16 stagioni nella Nba. Un campione capace di essere una stella senza mai rubare la scena ai suoi compagni

Di Matteo Marchetti
Pubblicato il 28 Ago. 2018 alle 16:47 Aggiornato il 28 Ago. 2018 alle 17:21

Basket, Manu Ginobili si ritira | Chi era, la carriera, i titoli e le migliori giocate

EMANUEL GINOBILI SI RITIRA – «È difficile scegliere i miei momenti preferiti – ha detto un anno fa Emanuel David Ginóbili – perché è facile ricordare the highs, le vittorie, i momenti belli. Ma anche i momenti negativi sono stati grandiosi, come spirito di squadra, unione, gruppo. Vinciamo insieme, perdiamo insieme. Anche i momenti brutti, quelli più duri, mi rendono fiero. Quei momenti ti fanno crescere, ti migliorano, ti rendono più intelligente. Quindi, è difficile scegliere un solo momento.

Credo che l’intero viaggio sia la cosa davvero incredibile, e il mio lo è stato davvero». Eccome: 1057 partite in Nba, oltre 14mila punti, 4mila assist, 1400 palle recuperate. E una carriera praticamente perfetta. Cominciata “davvero” in Italia, e – per me – nel mio salotto.

Manu

Manu Ginobili | TELE+ NERO

Anno di grazia 2000-2001, che se sei un tifoso di sport gli anni hanno sempre otto cifre, e mai solo quattro (al massimo sei, per brevità). Nel mondo reale, ti avvii verso la licenza media. Noioso.

Nel mondo dello sport, per te, è una stagione che per mille motivi non dimenticherai mai: vieni dalla rosicata maxima di Euro 2000, a Roma arriva Batistuta e il finale è scritto. Nel basket, invece, le cose non vanno altrettanto bene: sì, ok, la Virtus Roma ha vinto la Supercoppa Italiana (in una improbabile formula che coinvolgeva gli interi campionati di A1 e A2), ma al PalaEur c’è poco da vedere, a parte Jerome Allen, Tonolli e un giovane Alex Righetti. Il basket, in quegli anni, è più a nord. È nella sua capitale, a Basket City. Il basket, in quegli anni, è Bologna.

L’anno di grazia, lo abbiamo detto, è il 2000-2001, per quella storia delle otto cifre. Se a un ragazzino dici “Manu”, è praticamente sicuro che risponda “Chao”: il profeta della patchanka domina cuori, classifiche e pure cronache politiche, sono gli anni del “popolo di Seattle” e butta così. Ma questo nel resto del mondo. Nella capitale del basket, a Basket City, Manu è un’altra cosa. A Bologna è arrivato Emanuel Ginobili.

E tu, che nel calcio hai Batistuta ma nel basket non vuoi accontentarti di Jerome Allen, Tonolli e Righetti, sei lì, davanti al televisore, a goderti una relazione extraconiugale, favorita da tuo fratello maggiore che dai tempi di Coldebella – credo per una questione di scarpe in comune con Shaq – tifa una Virtus diversa dalla tua. Anzi, ammetto dolorosamente che, per chiunque non sia di Roma, quella che tifa lui è “la” Virtus. La Kinder, in quegli anni lì.

E piano piano, davanti al televisore, pure io ho imparato a voler bene a Sasha Danilovic, a Frosini, a Rigaudeau. Attenuavo il senso di colpa per le corna alla Virtus Roma grazie a Hugo Sconochini, numero 10, 192 centimetri di purissima garra argentina e una stagione bellissima a Roma, la prima che ricordi. Poi è volato via (sarebbe tornato, Hugo, e sarebbe stato comunque amore), ma era come se si portasse dietro un po’ della tua squadra mentre la squadra di Messina girava l’Europa insegnando pallacanestro.

2000-2001, e se siete tifosi di basket sapete già dove va a parare questa storia: la Kinder realizza uno storico triplete (che allora si chiamava “grande slam”), e Manu Ginóbili è il suo profeta. Almeno per me, che tifo un’altra squadra ma non riesco a non emozionarmi. Tutto quello che sarebbe diventato, era già lì: Manu fa tutto. Manu palleggia, Manu attacca, Manu difende. Manu tira da tre ed è letale, Manu passa la palla come nessuno. Manu fa – e la fa solo lui – una cosa pazzesca sulla linea di fondo: dall’angolo sinistro, pesca l’uomo nell’angolo destro, facendo descrivere alla palla una curva ad effetto, fuori dal campo. Diventerà la “sua” mossa, e se mi chiedessero di sintetizzare Ginóbili, sicuramente sarebbe quel passaggio lì.

Manu Ginobili | La mensola e la Viola

Emanuel David Ginóbili è nato a Bahia Blanca, nel sud dell’Argentina, forse l’unica città del Paese in cui il basket conta ancora più del calcio. Emanuel ha due fratelli, e tutti e tre giocano a basket. Emanuel è molto basso, è magrolino. Emanuel – gli dicono – non potrà mai essere un giocatore di vertice. Emanuel è un bambino molto piccolo, con un narigón (l’inconfondibile naso) imponente. Il suo primo avversario, il più duro, era la mensola nella cucina di casa sua: ogni giorno, disperatamente, si faceva misurare dalla mamma, sperando di averla finalmente raggiunta. Niente. Poi però, come in tutte le storie migliori, Manu è sbocciato. Manu è cresciuto. Manu è arrivato in Primera, con l’Estudiantes di Bahia Blanca. Manu – a vent’anni da compiere – è il capocannoniere.

A questo punto (è il 1998-99) entra in scena Gaetano Gebbia, responsabile del settore giovanile della Viola Reggio Calabria, grande appassionato e conoscitore di basket sudamericano. Per capirci, è quello che qualche anno prima aveva portato in riva allo Stretto Hugo Sconochini (sì, sempre lui. Scusate, ma pure a Hugo voglio bene, e a questo punto colgo l’occasione. Quando mi ricapita?). Manu arriva a Reggio, e gioca divinamente: nel suo primo anno – alla faccia delle difficoltà di ambientamento – segna 17 punti a partita, ma soprattutto è un giocatore completo, con un repertorio totale. A rubare di più l’occhio, però, sono le sue penetrazioni: come fa a passare in quegli spazi? Esistono davvero, quegli spazi, o esistono solo per lui?

Manu Ginobili | Nba Draft

Manu, nell’estate del 1999, viene chiamato in Paradiso. È R.C. Buford, il vulcanico executive dei San Antonio Spurs, a sceglierlo. Numero 57, la penultima scelta disponibile delle 58 totali del Draft. Popovich, il leggendario coach neroargento, è poco convinto, quel nasone magrolino sarà pure fortissimo a Reggio Calabria, ma chissà qui. E poi gli Spurs giocano una pallacanestro interna, tutta impostata sulla fenomenale coppia di “lunghi” formata da Tim Duncan e dall’Ammiraglio David Robinson. Hanno appena vinto il loro primo titolo, e siamo all’alba di un decennio lungo da leggenda. Che c’entra questo ragazzino? Ma Buford insiste. Scambia per lo slavo Giricek (per tenere buono il coach, che è di origine serba e per quella scuola ha un debole) e al penultimo respiro pesca «Manu Ginobìli», come viene chiamato – sbagliando l’accento – dal palco del MCI Center di Washington, DC. Sono le ultime scelte del secondo giro, di solito si scelgono le comparse, nessuno presta attenzione. Malissimo.

È un buon draft, ci sono ottimi giocatori: c’è lo sfortunato ma fortissimo Elton Brand, c’è Steve Francis, il Barone Davis, Lamar Odom (futuro “Lamarvelous” e soprattutto futuro signor Kardashian), ci sono “Rip” Hamilton e Andre Miller, “the Jet” Jason Terry e “the Matrix” Shawn Marion, alla 16 pescano Ron Artest, futuro Metta World Peace, futuro Panda’s Friend, oggi tornato semplicemente lui (che è già abbastanza). Bravi eh, ma il meglio di questo Draft si vedrà solo tra un po’, anzi, qualche anno. Il motivo, proprio in quegli anni, comincia a chiamarsi “Eurostashing”: per aggirare il tetto salariale, si scelgono giocatori stranieri, ancora non pronti per l’America ma comunque futuribili, e li si lascia a maturare in Europa. Meglio provare a prendere un prospetto che accollarsi giocatori mediocri da subito. Poi, chi vivrà vedrà; nel frattempo, si ottiene la possibilità di “spendere” i soldi destinati a quel contratto. In anni recenti, è successo a giocatori anche molto importanti come Valanciunas, Mirotic, Ibaka, Splitter, e soprattutto a Dario Saric; in passato, era successo a campioni assoluti con la sfortuna di essere nati Oltrecortina: Vlade Divac, Drazen Petrovic, Arvydas Sabonis.

In quel draft, quella sorte tocca ad “AK-47”, Andrej Kirilenko, poco più che un bambino che però già incanta al CSKA; ci sarebbe anche Fredric Weis, ma l’estate successiva, a Sidney, finisce nella storia dalla parte sbagliata a causa di una schiacciatona di Vince Carter (qualcosa di assolutamente brutale, soprattutto se consideriamo che Weis, saltato a pié pari IN PARTITA, è alto 2 metri e 18 centimetri), e non giocherà mai nella Nba. Soprattutto, tocca al ventunenne argentino che gioca in Calabria. Col senno di poi, i rimpianti saranno stati giganteschi: per chi ha scelto Langdon (poi dominatore in Europa, ma deludente in patria), Radojevic, Bowdler (visto a Roma a fare il giocatore simpatia), Posey, Foster, Padgett, Rico Hill… Chi sono tutti questi? Che cosa hanno dato, rispetto a Manu Ginóbili? Il Draft sa essere spietato.

Manu Ginobili | Sul tetto d’europa

La chiamata in Paradiso è arrivata (leggenda vuole che quando ha sentito «Alla chiamata numero 57 gli Spurs hanno scelto l’argentino Ginóbili», Manu abbia pensato se per caso si riferissero a suo fratello Seba), ma il Paradiso può attendere, come nella migliore tradizione. È acerbo, e il primo a saperlo è lui. Si rimane in Italia, e nel 1999-2000 Emanuel Ginóbili è il miglior giocatore della Serie A. Il titolo potrà sembrare poco significativo, per uno che ha dominato il mondo, ma non lasciatevi ingannare: la Serie A, in quegli anni, è il top. Se il crollo di livello del campionato di calcio può sembrarvi crudele, pensate a cosa è successo, negli anni, a quello di basket: fino ai primi anni Duemila, il basket europeo era in Italia, prima Varese e Cantù, Roma, Milano, poi le due bolognesi, Treviso, Siena. Corazzate.

Ed è proprio una di quelle corazzate a chiamarlo: nell’estate 2000 – e qui torniamo al punto di partenza – Manu arriva a Bologna. Vince tutto, la stella in una squadra di fenomeni: non c’è azione che non sia in grado di portare a termine, si tratti di palleggiare, chiudere al ferro in acrobazia, schiacciare, tirare da fuori, passare, difendere. Un “all-rounder”, come dicono gli americani, una star ma riluttante, che sotto i riflettori si porta sempre qualche altro compagno. Ha una fede assoluta nel concetto di squadra. Perfetto, quindi, per San Antonio, anche se lì ancora non lo sanno, o comunque non possono immaginare fino a che punto. Nel 2002, dopo che la cavalcata della Kinder verso il bis si ferma in finale di Eurolega, si sente pronto: si va dall’altra parte dell’Atlantico.

Manu Ginobili |«THIS IS WHAT I DO»

L’impatto con il coach Gregg Popovich – famoso per le sue poche parole e per le sue proverbiali sfuriate – è abbastanza complicato. “Pop” è un ex militare, comanda la sua squadra come un plotone, e la locura e la creatività di Manu gli vanno poco a genio. Tanto più che – per non far mancare nulla alle incomprensioni – Ginóbili si presenta infortunato al primo training camp: a Indianapolis, ai mondiali del 2002, ha voluto giocare per forza la finale contro la Jugoslavia, nonostante un serio infortunio alla caviglia. Male per l’Argentina, ma soprattutto male per lui: nel campionato più difficile del mondo, con un coach che all’epoca non apprezzava granché la creatività, e con una caviglia semidistrutta.

«Manu – avrebbe detto Popovich anni dopo – all’inizio faceva cose che mi stupivano, ma mi frustravano allo stesso tempo. Poi un giorno, non ricordo che stagione fosse, gli ho chiesto “Ma perché fai queste cose?”. E lui mi ha risposto: “That’s what I do”. E da quel giorno, gli ho lasciato fare quello che fa». Il basket degli Spurs, in quel primo anno, è ancora “vecchio stile”: due lunghi d’area, gioco in post, scarichi. Tutto molto ordinato, ma abbastanza prevedibile. A scuotere la franchigia – e a creare un nucleo che avrebbe dominato per anni – arrivarono il francesino Tony Parker e lui, Manu. Pop lo massacra, lo mette in campo e non esita a toglierlo dopo pochi secondi se vede qualcosa che non viene dal suo copione. Una sera, contro i Grizzlies, Ginóbili fa 1/7 ai liberi (caso rarissimo per lui), e il coach chiama un timeout, furibondo. «Fammi vedere la mano, cos’ha, trema?». La mancanza di coraggio, per Popovich, è un peccato capitale. Ma questo, per Manu, non è un problema: il coraggio c’è, il suo gioco migliora, e lui si prende lo spazio nella squadra. Pop ha idee molto forti, ma è anche disposto a cambiarle, se lo meriti. Manu lo merita: alla fine, il coach gli ritaglia un ruolo da “sesto uomo”, entrare dalla panchina e spaccare le partite. Nel 2003, al termine del suo primo anno, gli Spurs sono di nuovo campioni.

Negli anni, Ginóbili esplode, diventa una star Nba (ricordo ancora l’emozione di quando lo inserirono nella sigla di Nba Action. Chiamai urlando mio fratello, quello della Virtus e di Coldebella). Ma è anche una persona intelligente, e non sgomiterà mai per cercare spazio sotto i riflettori. «La cosa più importante – ha spiegato in un’intervista – è, in un determinato momento, saper rinunciare al tuo spazio, per far vincere la tua squadra. Un’altra cosa importante è  divertirti con i tuoi compagni, non pensare sempre a sé». Sesto uomo? Riserva? Nessun problema. Insieme all’altra superstar riluttante, Tim Duncan, e con Tony Parker, crea quella che Sports Illustrated ha chiamato “The Quiet Dynasty”: campioni nel 1999 (pre-Manu), 2003, 2005, 2007, 2014. Nessuna squadra, dal 1998 a oggi, ha vinto più partite. Nessuna squadra, nel basket moderno, è riuscita a rimanere per vent’anni ai vertici assoluti. Perché nessuna squadra ha avuto quella combinazione – forse irripetibile – di lavoro, altruismo, voglia di vincere. Star che rinunciano ai soldi facili che potrebbero arrivare da altre parti (Denver prova a “rubare” Ginóbili, coprendolo d’oro: no, grazie, meglio la mia squadra). Nel 2005, Manu è il vero Mvp della finale che oppone gli Spurs ai Pistons; gli preferiscono Duncan, per una serie di motivi, ma credete che a lui importi? Tutt’altro. L’importante è la vittoria, l’importante è la squadra. Ginóbili non è mai stato il giocatore che pretendeva il pallone decisivo, a fine partita. Ginóbili era il giocatore a cui la squadra voleva dare quel pallone. Ginóbili è stato un giocatore straordinario, e una persona di rarissima intelligenza. La combinazione, negli sport, non capita troppo spesso, ma quando capita dà risultati meravigliosi. Spurs e Ginóbili: un collettivo pieno di campioni, con campioni che credono nel collettivo. L’intelligenza ti permette di supplire a gambe che magari non girano come prima, ti dice quando accelerare e quando rallentare. Quando giocare da fermo e quando, durante la finale del più prestigioso campionato del mondo, andare a schiacciare in testa a Chris Bosh, a 36 anni. Quando chiamare il cambio, e quando – a 39 anni e spiccioli – sfilare dalle mani di un incredulo James Harden la tripla decisiva. E il coach lo sa, che prima o poi dirai basta, ma fino ad allora – giura – ti vuole con sé. «Come una saponetta», diceva scherzando Popovich, «finché non sarà rimasto più nulla. Non voglio si ritiri mai».

Manu Ginobili | Il ritiro

Emanuel David Ginóbili, che oggi ha 41 anni, si è ritirato. Di quegli Spurs non rimane praticamente più nulla: Parker è andato a Charlotte, Duncan ha già detto “basta” due anni fa. Oggi smette Manu. Non in un giorno qualsiasi: nel 2004, proprio il 28 agosto, la Selecciòn argentina batteva l’Italia in finale ad Atene, e la “Generación Dorada” (Manu, Scola, Sconochini, Oberto, Nocioni, Delfino…) saliva sul tetto del mondo, dopo aver fatto fuori il Dream Team di Duncan, LeBron, Anthony, Iverson, Marbury…

In quel periodo, giura Massimo Oriani della Gazzetta, Ginóbili rivaleggia in popolarità con Maradona. Oggi, quel ragazzino che guardava a rotazione Come fly with me (celebre VHS di Michael Jordan) sperando di arrivare alla mensola della cucina, che veniva irriso dai fratelli perché troppo basso, quel narigón  che faceva uscire coach Pop dalla grazia di Dio, quel meraviglioso campione che ha insegnato pallacanestro per vent’anni, dice “basta”. A noi, la fortuna di averlo visto. Per chi non c’era, un consiglio: fatevelo raccontare.

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