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Cento anni fa nasceva Fausto Coppi, l’uomo solo al comando che rianimò l’Italia del dopoguerra

Fausto Coppi

Il 15 settembre 1919 nasceva l'Airone, un mito del ciclismo che rianimò l'Italia del dopoguerra

Di Roberto Bertoni
Pubblicato il 14 Set. 2019 alle 12:19 Aggiornato il 14 Set. 2019 alle 13:56

Il 15 settembre 2019 il centenario della nascita di Fausto Coppi

Non è l’immagine dell’uomo solo al comando, resa celebre dalla voce di Mario Ferretti durante la leggendaria Cuneo-Pinerolo, che vogliamo ricordare in occasione del centenario della nascita di Angelo Fausto Coppi. Ci piace partire dall’epifania di questo mito del pedale che, insieme a Bartali, rianimò l’Italia negli anni della speranza e del riscatto.

Ci piace partire da quando era ancora un gregario di appena vent’anni e il suo capitano, alla Legnano, era per l’appunto Bartali, cui tuttavia quel Giro andò male a causa di una caduta sul passo della Scoffera, al che decise, da campione qual era, di mettersi al servizio di questo sconosciuto ventenne che diede spettacolo sull’Abetone.

Scrisse di lui Orio Vergani: “Fu allora, sotto la pioggia che veniva giù mescolata alla grandine, che io vidi venire al mondo Coppi. Vedevo qualcosa di nuovo: aquila, rondine, alcione, non saprei come dire, che sotto alla frusta della pioggia e al tamburello della grandine, le mani alte e leggere sul manubrio, le gambe che bilanciavano nelle curve, le ginocchia magre che giravano implacabili, come ignorando la fatica, volava, letteralmente volava su per le dure scale del monte, fra il silenzio della folla che non sapeva chi fosse e come chiamarlo”.

Se Bartali è stato l’emblema della scontrosa gentilezza, del mito intramontabile che ha segnato la storia anche in silenzio, con gesti significativi come la falsificazione dei documenti degli ebrei per favorirne la fuga, Coppi è stato il simbolo dell’Italia operosa che sfidava i propri limiti per spingersi oltre.

Piemontese di Castellania, oggi Castellania Coppi, in provincia di Alessandria, nacque il 15 settembre 1919 in via Umberto I, oggi via Fausto Coppi, dalle stesse parti di un fuoriclasse dei tempi pionieristici come Costante Girardengo che presto si accorse del talento di questo sgraziato garzone di bottega che, tuttavia, aveva una forza fisica e una resistenza in bicicletta fuori dal comune.

E così, se Bartali è stato l’ultimo vate dell’Italia contadina, è lecito asserire che Coppi sia stato il primo cantore dell’Italia industriale, di quel paese operoso e laborioso che si rimboccava le maniche, abbandonava i campi e si dirigeva verso le fabbriche per ricostruire ciò che la guerra aveva annientato.

Non a caso, il nome di Ginettaccio è legato soprattutto al periodo a cavallo fra i due conflitti mondiali mentre Fausto il meglio di sé, anche per motivi di età, lo ha dato dopo, conquistando trofei a raffica e vincendo il Giro e il Tour in uno stesso anno, il fenomenale ’49, l’anno della già citata Cuneo-Pinerolo e di Binda commissario tecnico della Nazionale.

All’epoca, infatti, il Tour si correva per nazioni e il fenomenale campione dell’infanzia dei due grandi rivali era adesso l’uomo cui era affidato l’ingrato compito di indurli ad aiutarsi per portare in Italia l’ambitissima vittoria. Solo un personaggio dotato di quel carisma e di quell’ascendente poteva riuscire nell’impresa di farli coesistere, convincendo, a un certo punto, l’anziano Bartali a mettersi al servizio dell’amico-nemico, accompagnandolo in un trionfo che va per lo meno diviso a metà.

Molti hanno identificato in Coppi e Bartali le due Italie ma non è così. Rappresentavano certamente un dualismo di quelli che andavano di moda all’epoca, ad esempio fra la Callas e la Tebaldi in ambito operistico, ma il termine di paragone per ritrarre i due è quello di don Camillo e Peppone, indimenticabili protagonisti usciti dalla penna del Guareschi senza alcuno sforzo, se non quello di un’acuta osservazione della società che aveva intorno.

Coppi e Bartali, a pensarci bene, erano i due volti della stessa persona, con i loro vizi e le loro virtù, la dolcezza malinconica dell’uno contrapposta all’aspra combattività dell’altro.

E come Fernandel e Gino Cervi, quando l’uno si attardava, l’altro lo aspettava e poi ricominciavano la loro eterna sfida: una corsa verso la gloria che altro non era che il desiderio di restituire un’illusione a un Paese distrutto e bisognoso non solo di rinascere ma, più che mai, di tornare a sognare.

Come sapevano bene entrambi, l’uno non sarebbe mai potuto esistere senza l’altro, in quanto l’obiettivo non era solo quello di battersi e migliorarsi a vicenda ma anche quello di trovare un equilibrio al cospetto di una modernità che, avanzando impetuosamente, spiazzava entrambi.

Furono accomunati anche dalla di tragica sorte dei fratelli minori, Giulio e Serse, vittime di tragici incidenti mentre provavano a inseguire la grandezza inarrivabile di due eroi ineguagliabili.

Sapevano entrambi cosa fosse il dolore, la fatica, la sofferenza, cosa volesse dire essere figli di gente che lavora con le braccia, cosa significasse doversi guadagnare giorno dopo giorno il pane e il rispetto, quanto pesasse ogni pedalata, specie in quegli anni, e quanto fosse importante, per loro, mangiarsi letteralmente l’asfalto.

Non è un caso, in merito all’apice coppiano, alla leggendaria tappa vinta il 10 giugno 1949 in seguito a una fuga di centonovantadue chilometri in solitaria, che le parole più significative sulla sua epopea universale le abbia pronunciate un giornalista francese, Pierre Chany, che seguiva quel Giro per L’Équipe: “Nella poltiglia della Maddalena, l’ho visto venire via dagli altri. Sfangava, quasi sollevando la bicicletta. Lo accompagnai fino a un paesino francese, mi pare Barcelonette. Lo lasciai andare. Entrai in una trattoria. Ordinai un pasto completo, dagli antipasti al caffè. Mangiai con tempi da buongustaio. Fumai una sigaretta. Chiesi il conto. Pagai. Uscii. Stava passando il sesto”.

Fausto Coppi ha corso tutta la vita contro i pregiudizi, contro il destino, contro l’Italia bigotta che lo condannò senza appello per via della storia d’amore con la “Dama bianca”,  contro un rivale tremendo come se stesso e contro avversari che, invece, gli volevano un gran bene.

E a quarant’anni se ne è andato, a causa di una dannata puntura di zanzara curata male, vinto dalla malaria ma, forse, anche dall’impossibilità di adattarsi a un mondo che lo vedeva forte quando, in realtà, era un uomo fragile e pieno di dubbi.

Coppi è sempre stato solo, fosse al comando o meno, e da solo ha dovuto affrontare tutte le battaglie, fino a perdere l’ultima decisiva con la vita.

Quel 2 gennaio 1960, giorno infausto, si è consegnato all’immortalità, ma non era questo quel che cercava.

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