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Il boom della beneficenza: con la guerra in Ucraina sono aumentati gli spot tv delle raccolte fondi

Di Franco Bagnasco
Pubblicato il 8 Apr. 2022 alle 16:55 Aggiornato il 8 Apr. 2022 alle 16:56

Donare fa bene. Sia a chi riceve soldi preziosi in tempi di gran bisogno sia a chi dona, che in qualche modo compensa psicologicamente la frustrazione dell’impotenza di fronte alle immagini agghiaccianti che tv e giornali rilanciano ogni giorno. La guerra in Ucraina ha riaperto come non mai i rubinetti della beneficenza. Un business molto florido. Le reti sono invase da spot solidali e anche un mare di Ong, Onlus e associazioni no-profit nobilissime, ma che nulla hanno a che fare con gli aiuti legati al conflitto, entrano in scia in un momento in cui i portafogli del pubblico si aprono più volentieri, grazie all’emergenza che ora è mediaticamente più rilevante. Un settore che già prima degli attacchi putiniani (gli ultimi dati disponibili sono del triennio 2018-2020) muoveva più di un miliardo di euro l’anno, con crescita del 5,8 per cento fra 2019 e 2020. E che adesso “fattura” ancora di più.

È difficile quantificare percentualmente la maggiore spinta in entrata, ma gli esperti dicono sia paragonabile a quella che si registrò nel 2015 dopo il terremoto in Nepal. «Sino a oggi abbiamo raccolto 6 milioni di euro per gli aiuti all’Ucraina, sia da inviare in loco attraverso coperte, cibo o cash transfer, sia per l’accoglienza nel nostro Paese e l’aiuto psicologico» spiega Giancarla Pancione, direttrice Marketing & Fundraising di Save The Children Italia, di gran lunga il principale operatore del settore. «Ma l’appello mondiale della nostra organizzazione punta ad arrivare a 120 milioni di dollari».

Solo sulle reti minori

«Gli spot televisivi – continua Pancione – sono il nostro canale primario per aumentare le donazioni, insieme con le lettere che inviamo presentandoci, le telefonate e gli incontri face to face dei ragazzi per strada, con la gente. Raramente vedrà le nostre pubblicità sulle grandi reti, come Rai1 o Canale 5, in prima serata. Costerebbero troppo, vanificando gli sforzi. Puntiamo su emittenti più piccole o addirittura minori, attingendo a sconti molto forti, che a volte arrivano al 90 per cento del listino, o agli spazi rimasti invenduti. Puntiamo a farci contattare al numero verde e a concordare una piccola donazione mensile, a stabilire una continuità. Il nostro database attualmente è di 500mila persone e nel 2021 abbiamo fatto fronte a 122 emergenze in 53 Paesi. Come ad Haiti, dove alla stagione delle piogge sono seguiti un terremoto e un tifone, e le alluvioni in Bangladesh. Ora si parla solo dell’Ucraina, è giusto e inevitabile che sia così, ma il rischio è che finiscano in ombra altre situazioni sempre emergenziali, come quelle in Afghanistan, Siria e Yemen. Abbiamo squadre sempre pronta a partire in 24 ore perché qualcosa accade sempre».

Come viene suddiviso l’introito delle donazioni? «Il nostro bilancio parla chiaro», prosegue Pancione. «Immaginiamo un euro raccolto: 78 centesimi vanno ai progetti sul campo; non più di 19,5/20 centesimi servono per le campagne pubblicitarie e raccolta dei fondi, e poco meno di 3 centesimi per pagare stipendi, spese vive, affitti, utenze… Con l’Ucraina sono aumentate le donazioni da parte delle aziende, che spesso, cosa piuttosto insolita sino a oggi, coinvolgono anche dipendenti e clienti».

Esiste una tecnica per la realizzazione di spot convincenti, in grado di raggiungere il pubblico più vasto possibile? «Sì, ci rifacciamo a precise tecniche di direct marketing», conclude la dirigente di Save The Children. «Sono comunicati in genere piuttosto lunghi, per far capire bene il problema, hanno una storia dal contenuto emozionale molto forte, e li facciamo trasmettere al pomeriggio o in orari più defilati, sia per ridurre i costi, sia per non intasare di chiamate il nostro call center. Abbiamo un rapporto di collaborazione stretto con La7, ma anche reti come Tele Padre Pio vanno molto forte su un pubblico più anziano. Il 5 aprile a Bologna è previsto un evento spontaneo voluto da artisti come La rappresentante di lista, Elodie, Noemi, Morandi e altri: raccoglieranno fondi che noi poi gireremo all’Ucraina».

Mentalità retrò

Il dilagare degli spot solidali per l’emergenza alle porte di Casa nostra ha fatto risvegliare anche tutto il resto del mondo del no profit, da Telethon (malattie genetiche rare) alla Lega del filo d’oro (bambini sordo-ciechi), giusto per citarne soltanto un paio di spicco. La logica economica sembra elementare: l’emergenza primaria scuote gli animi, ma dal momento che la torta delle donazioni non può essere infinita, facciamo sentire la nostra voce per accaparrarcene una fetta prima che sia troppo tardi. Prima che l’Ucraina prosciughi tutto. «È esattamente così, e non mi sento di deprecarlo», commenta Francesco Bozza, pubblicitario Chief creative officer della GreyUnited, prima in Leo Burnett, con una lunga esperienza nel settore no profit. «Il mondo dell’associazionismo social ha un bisogno costante di dichiarare di esistere.

Quindi si sfrutta il momento e ci si ritaglia uno spazio. Ci sono le grandi realtà, con buoni agganci e senza problemi, ma anche un mare di piccole Onlus che arrancano. Quando si realizza uno spot per loro, il costo per creativi e agenzia non supera mai il 10 per cento. Il restante 90 per cento sono soldi che servono loro a comprare gli spazi tv, che non di rado vengono elemosinati. Il problema poi è come si fanno le cose, la realizzazione: bisogna fare campagne che colpiscano o anche che provochino, arrivando all’anima e lasciando qualcosa. Più rischioso, ma sempre vincente. Invece nella gran parte dei casi vediamo in onda il bambino malato e sofferente, che piange nel villaggio, l’appello e il numero verde con il pianoforte in sottofondo. Il solito copione poco efficace: uno spot brutto e uno fatto bene costano la stessa cifra. I cassetti delle agenzie sono pieni di idee, che non vengono realizzate per colpa della mentalità retrò di chi dirige queste associazioni e non capisce che la comunicazione oggi è cambiata. C’era un’associazione che si occupava di installare pompe d’acqua nei paesi africani. Invece del solito spot col bambino assetato nel deserto, ha mandato a concorrere alla Maratona di Parigi una donna del Gambia vestita con abiti tradizionali del suo Paese, che camminava lenta con in testa un vaso contenente 20 litri d’acqua. E una scritta che rimarcava: “Ogni giorno percorro 20 chilometri così per portare l’acqua al mio villaggio”. Quella foto e quelle immagini hanno fatto il giro del mondo su tutte le tv e i giornali senza che quella Onlus dovesse comprare un solo spazio. Con un ritorno d’immagine straordinario».

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