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Giovanni Allevi racconta la sua malattia: “Un viaggio all’inferno. Poi però un giorno è arrivata la felicità”

Credit: AGF
Di Giovanni Macchi
Pubblicato il 20 Mar. 2024 alle 16:07

“C’è stato un momento in cui ho dovuto mantenere lo sguardo dritto sui fiori, mentre camminavo all’inferno”. Così Giovanni Allevi descrive la sua personale battaglia contro il mieloma multiplo che gli è stato diagnosticato due anni fa.

Il musicista 54enne entra nei dettagli del suo percorso terapeutico parlando davanti a 6mila studenti seduti in platea al Forum di Assago per l’evento “Happiness on Tour – Storie di Felicità”, promosso dalla Fondazione della Felicità.

Il racconto inizia con una carrellata di immagini della sua carriera di artista acclamato in tutto il mondo: “Quella che avete visto – dice Allevi ai ragazzi – era la mia vita fino a due anni fa. Poi una malattia terribile ha spazzato via tutto. Tanto che oggi mi chiedo: magari è venuta apposta?”.

“Un giorno – ricorda – mi dicono che devo fare una decina di punture sulla pancia. E io penso che non ne ho voglia, che è difficile con la neuropatia e il dolore alle mani. Poi ci rifletto e mi dico: va bene. Io non sono destinato al comando, sono una persona delicatissima e non riesco a dire agli altri cosa devono fare, come insegnante di scuola media ero un disastro. Ma nella malattia ho dovuto assumere il comando più importante: il dominio su me stesso e sulle mie paure e ansie, ho dovuto mantenere lo sguardo dritto sui fiori mentre camminavo sull’inferno e regalare un sorriso anche quando soffrivo”.

Allevi spiega poi in cosa è consistita la sua terapia a base di cellule staminali, che lui definisce “il futuro della medicina”: “Tutti noi – sottolinea – siamo in grado di produrle, o possiamo indurne la produzione con quelle punture sulla pancia. E te ne accorgi, perché senti un dolore pazzesco. Ma io di quel dolore dovevo essere contento perché significava che stava funzionando. Poi le cellule bisogna raccoglierle e mi portano in uno stanzone pieno di letti separati da teli. Mi tirano via il sangue. Il sangue entra in una macchina che lo centrifuga, separa le staminali”.

“La mia sacchetta di staminali – prosegue il racconto – va in emoteca e inizia una fase apparentemente distruttiva, non potete capire il dolore. Il midollo deve essere distrutto” e “la scienza ha inventato la chemio per farlo”.

A quel punto, dice Allevi, “divento immunodepresso, senza difese verso l’esterno, potrei morire per un raffreddore”: “Mi sono ritrovato calvo, imbottito di oppioidi che mi davano la sensazione di avere la febbre a 39, dimagrito. Lì ho capito che bastava che decidessi di lasciarmi andare e mi sarei spento”.

“Cosa mi ha dato forza? Il non voler dare un dolore ai miei familiari. E poi la cultura”, spiega: “In quei giorni ho visto conferenze di filosofia, di letteratura classica, ho scoperto che la fragilità umana è una costante dell’umanità e mi sono sentito meno solo”.

Poi, continua Allevi, “portano in stanza la sacchetta di staminali, è arancione. Me l’hanno infusa nel braccio sinistro. Le staminali entrano nel corpo e dicono: c’è da ricostruire un midollo. E magari producono globuli bianchi buoni e forti in grado di attaccare anche le cellule cancerogene. Inizia un’attesa snervante”.

Finché “una mattina un giovane dottore entra con veemenza, senza tuta, guanti, mascherina. Agita dei fogli, mi dice: ‘Maestro, ha 13 globuli bianchi’. Con senso di umorismo gli rispondo che forse sono un po’ pochini. In realtà erano 13 globuli bianchi per millimetro cubo”.

“La bilancia – spiega il musicista – iniziava a pendere di nuovo verso la vita. Vengo investito da una felicità allo stato puro. Non una sensazione effimera, mi è venuto addosso un treno, un grattacielo. Semplicemente perché ero vivo”.

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