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Tutto quello che non sapevate su Franco Battiato (raccontato dal suo biografo autorizzato)

Di Giuseppe Pollicelli
Pubblicato il 18 Mag. 2021 alle 19:14

I sentimenti più forti che albergavano nella persona di Franco Battiato erano lo stupore e la gratitudine. Durante tutta la sua vita terrena, conclusasi questa notte, Franco è stato stupito e grato per l’incommensurabile genio che aveva avuto in dono. E l’immane lavoro da lui svolto per perfezionarsi come uomo e migliorarsi come artista – con rigorosa disciplina, parola e concetto che amava tantissimo – è stato, in fondo, una forma di riconoscenza per il talento smisurato che aveva ricevuto in sorte.

Un talento che lui per primo considerava sovrannaturale, di origine divina, tanto da ritenere un proprio dovere svolgere, attraverso la musica, la funzione di ponte tra la nostra dimensione materiale e quella ultraterrena, nella quale credeva profondamente. Anzi, era quest’ultima – come affermato dalle dottrine orientali a cui iniziò ad abbeverarsi, senza mai più smettere di farlo, intorno ai venticinque anni – l’unica dimensione reale; e illusoria quella terrena.

Resta in effetti difficile spiegare come Battiato abbia saputo rivelarsi, dal 1970 in poi, tra i maggiori musicisti italiani di ogni epoca (tranquillamente affiancabile, e con il tempo questo sarà sempre più chiaro, a Vivaldi, a Rossini, a Verdi; lasciando peraltro da parte la grandezza dei suoi testi), dal momento che crebbe in un contesto che, come lui stesso non mancava di sottolineare, di stimoli e opportunità gliene offrì molto pochi.

Nato il 23 marzo del 1945 nella cittadina di mare di Riposto, in provincia di Catania, che all’epoca era stata ribattezzata Jonia in seguito all’effimera fusione con la vicina Giarre voluta dal fascismo, Franco era figlio secondogenito di Salvatore, un commerciante di vini quasi sempre in giro per lavoro (e con cui Battiato ebbe un rapporto conflittuale e irrisolto), e di Grazia Patti, casalinga, madre venerata come lo fu Susanna Colussi per Pier Paolo Pasolini.

Già da bambino, quando a casa sua – e lo ricordava sempre – non erano presenti né libri né giornali, iniziò a manifestare un’inesplicabile attrazione per la musica, tradottasi nella richiesta ai genitori di una chitarra su cui strimpellare in maniera istintiva le prime note. Più o meno in contemporanea, ricevette le avvisaglie dell’esistenza di un oltre: quest’apocalisse, minima ed enorme assieme, avvenne ascoltando, mentre stazionava presso il sagrato della chiesa madre di Riposto, le note della “Passione secondo San Matteo” di Bach.

Da quel momento, arte e spiritualità saranno per lui, eccezion fatta per i primissimi anni degli incerti esordi milanesi (dal 1964 al 1969), una cosa sola. Quando suo padre muore prematuramente, Franco, allora diciottenne, decide appunto di abbandonare la Sicilia, e gli studi universitari, e di dedicarsi totalmente alla musica.

Un frangente cruciale da lui stupendamente cantato in uno dei capolavori del periodo cosiddetto sperimentale, “Da Oriente a Occidente” (dall’album “Sulle corde di Aries”, 1973): “Lontano da queste tenebre / matura l’avvenire. Il cielo è senza nuvole / padre, fammi partire! La luce sul vulcano mi indicherà l’uscita / al fuoco delle tenebre scelgo una nuova vita”.

Dopo una breve e insoddisfacente parentesi romana, si trasferisce così a Milano, trovando nel capoluogo lombardo il suo approdo ideale. Da assoluto autodidatta, debutta incidendo cover di successi dell’epoca per una rivista di enigmistica, fa cabaret e teatro, stringe amicizia con Giorgio Gaber e Ombretta Colli. Gaber, intuitene le potenzialità, gli fa incidere dei 45 giri (canzoncine sentimentali e di protesta) con la piccola etichetta Jolly e nel 1967 lo lancia anche in televisione, nel programma Rai “Diamoci del tu”, suggerendogli, sembra, di cambiare nome da Francesco (così all’anagrafe) in Franco, per distinguersi da Guccini, a sua volta presente in quella puntata della trasmissione.

Segue un periodo buio in cui Battiato, smanioso di successo, cerca di sfondare come cantante pop e addirittura come crooner, ma i tentativi falliscono. E il motivo, come Franco capirà presto affrontando una grave ma salutare crisi (combattuta per mezzo della meditazione, anch’essa approcciata da autodidatta), è che non era quella la sua strada.

Arriva così la seconda sterzata dopo il commiato dalla Sicilia e si apre per lui, letteralmente da un giorno all’altro, la stagione dell’elettronica, della musica progressiva e dei festival pop, nella quale si impone all’attenzione generale (non solo in Italia) con album spiazzanti, sofisticati e innovativi come “Fetus” (1971) e “Pollution” (1972), lasciando che a plasmare la sua immagine pubblica da freak sia il copywriter Gianni Sassi, sodale del produttore Pino Massara nella coraggiosa etichetta milanese Bla Bla.

Di lì a poco, stanco dell’aura vagamente maledetta cucitagli addosso per motivi commerciali, trascura sempre di più la forma canzone, si apparta dedicandosi alla ricerca, alla sperimentazione, alla musica colta (e siamo già alla terza svolta) e, dopo aver conosciuto Karlheinz Stockhausen, che trasecola nell’apprendere che il giovane e dotato siciliano non è in grado di leggere uno spartito, recupera il tempo perduto e si mette a studiare la notazione.

Ne derivano album ostici, nutriti dall’ascolto di sperimentatori come John Cage e Terry Riley: “Battiato” (noto anche come “Zâ”), “Juke Box” e soprattutto “L’Egitto prima delle sabbie”, due suite strumentali costituite da accordi e scale di note ripetuti a oltranza; quest’ultimo premiato personalmente da Stockhausen nel 1979.

Il 1979 è anche l’anno dell’ennesimo détournement di Franco, forse il più sconcertante, benché Battiato avesse in realtà seguitato a frequentare la canzone collaborando con altri artisti (per esempio l’abruzzese Alfredo Cohen, autore con Franco di un memorabile lp a tematica omosessuale, “Come barchette dentro un tram” del 1977). Contando sul determinante apporto del suo maestro privato di violino (perché si era messo a studiare anche il violino), il veneto Giusto Pio, orchestrale della Rai, Battiato pubblica per la EMI il 33 giri “L’era del cinghiale bianco”, sette tracce in cui la sua musica sempre più raffinata e riconoscibile si fonde in modo sublime con l’originalissimo e solido background intellettuale da lui nel frattempo costruitosi tramite letture e viaggi, in un inusitato cortocircuito tra Medio Oriente e Mitteleuropa, tra il mistico armeno Gurdjeff (vero e proprio faro di Franco) e Roberto Calasso, anche citato nella canzone “Passagi a livello” del 1980.

Si apre una fase di creatività debordante che trasforma rapidamente Battiato in un Re Mida della discografia italiana: dove lui mette le mani – grazie a un controllo ormai totale del proprio talento e a una lucidità impressionante nella scelta di temi, liriche, melodie e collaboratori – scaturisce oro.

Nel 1981 compone “Per Elisa”, con cui vince Sanremo grazie all’intensa interpretazione di Alice e, verso la fine dell’anno, consegna alla EMI “La voce del padrone”, l’album che, oltre a sfondare per primo il tetto del milione di copie vendute, rappresenterà uno dei massimi spartiacque nella storia della musica italiana. Altre sette tracce che, unendo con estro impareggiabile musiche e testi, con un’attitudine sapiente e beffarda per il pastiche, si imprimeranno nella memoria collettiva pur contenendo riferimenti esoterici (non c’è canzone più gurdjeffiana di “Centro di gravità permanente”) e pur trattando temi ardui, dalla ricerca del senso della vita alla necessità di aprirsi a nuovi orizzonti esistenziali.

Ancora, nel 1982 scrive, sempre al fianco di Pio, un intero album per Milva, contenente anche “Alexanderplatz”, che diverrà subito un classico del repertorio della cantante, e dona a Giuni Russo un futuro evergreen della nostra musica leggera, “Un’estate al mare”, trionfatore assoluto nella hit-parade di quell’anno.

Toccato l’apice della fama e della popolarità, come a tavolino aveva stabilito di fare essendo stanco di nutrirsi con cappuccini e cornetti per mancanza di denaro, Battiato immancabilmente sterza e si concentra ancora di più sulla propria interiorità, sempre tenendo d’occhio – debitamente da lontano – la società in cui vive e i suoi mutamenti.

Torna quindi in Sicilia portandosi dietro l’inseparabile mamma, e si stabilisce a Milo, tra il mare e l’Etna, dove ristruttura una vecchia villa trasformandola in una via di mezzo tra un buen retiro e una factory. È il periodo delle canzoni più introspettive e mistiche, da “E ti vengo a cercare” (cantata anche davanti a Giovanni Paolo II) a “Lode all’Inviolato”, brani talvolta nostalgici e “regressivi” (come avrebbe detto lui), specchio del bisogno di recuperare le proprie radici ma sempre evitando accuratamente di venire identificato con i luoghi comuni e gli aspetti corrivi della “sicilitudine”, da lui detestati.

È la fase del Battiato barbuto e dall’aspetto sempre più ascetico e severo (quello con cui nel 1992 si esibisce a Baghdad per protestare contro l’embargo americano nei confronti dell’Iraq), segnata dalla non prevista e struggente invettiva civile di “Povera patria”.

È anche il periodo in cui Franco, non sopportando la sua incapacità nel disegno, si mette in testa, “per motivi terapeutici”, di diventare un pittore. E anche questo gli riesce, sapendo trasfondere nei suoi dipinti figurativi, quasi sempre impreziositi da sfondi dorati che richiamano le icone bizantine, la vastità e la profondità del suo mondo interiore pur nell’elementarità del tratto.

A metà degli anni Novanta Battiato fa un incontro decisivo, quello con l’eccentrico e antiaccademico filosofo lentinese Manlio Sgalambro, ateo e nichilista, con il quale Franco, assistito dall’abituale intuito, percepisce di avere una sintonia malgrado le opposte visioni dell’esistere. Si tratta dell’ennesima figura “paterna” a cui Franco si lega, artisticamente e umanamente, dopo Gaber, Stockhausen e Pio, tutti non a caso di diversi anni più grandi di lui.

Dapprima Battiato affida a Sgalambro la stesura del libretto di un’opera dedicata a Federico II, “Il cavaliere dell’intelletto”, la sua quarta dopo “Genesi” (1987), “Gilgamesh” (1992) e “Messa arcaica” (1993), quindi gli fa scrivere tutti i testi di un album tanto notevole quanto poco compreso (è il meno venduto della sua sterminata discografia), “L’ombrello e la macchina da cucire”.

Da quel momento in poi, Sgalambro sarà una presenza costante nella ramificata e sempre fluviale produzione di Battiato (divenuto nel frattempo anche editore di testi di spiritualità con la sigla L’Ottava), rivelandosi fondamentale nell’ulteriore svolta di Franco, quella rappresentata dagli album “L’imboscata” (un titolo di per sé eloquente) del 1996, che ospita “La cura”, canzone destinata a diventare la sua più nota, e “Gommalacca” del 1998.

Ponendosi in prodigiosa sintonia con i fermenti musicali della fine degli anni Novanta, e valorizzando giovani promesse della scena di allora come Morgan e Ginevra Di Marco, Battiato torna prepotentemente rock, anzi lo diventa come mai prima era stato, e ricomincia a riempire palazzetti dello sport e stadi, riuscendo ad ampliare il proprio pubblico e a intercettare più generazioni, comprese le ultimissime.

I concerti dei tour legati a “L’imboscata” e “Gommalacca” sono senza dubbio tra i momenti artistici e culturali più alti della fine del Novecento (e di una di queste date esiste per fortuna una videoregistrazione quasi integrale): una sintesi sublime di generi e influenze musicali, un distillato senza eguali di ispirazioni alte, suggestioni intellettuali, poesia, critica sociale, ironia, divertimento, in cui, senza soluzione di continuità, come su delle magiche montagne russe, si passa dalla commozione alla preghiera, dalla riflessione al ballo sfrenato.

Concerti nei quali, con uno dei suoi colpi di genio, Battiato fa esibire, in veste di cantante, lo stesso Sgalambro, lasciandogli eseguire canzoni immortali quali “La mer” o hit del momento tipo “Me gustas tu”. Di più: convincerà la Sony a far incidere a Sgalambro un disco, “Fun Club”, interamente composto di cover interpretate dall’anziano filosofo.

Assurto ormai a mostro sacro della musica, chiamato un po’ da tutti Maestro (benché lui apprezzasse poco la cosa), amato e stimato anche all’estero (e se fosse nato negli Usa o in Inghilterra avrebbe oscurato tanto Frank Zappa quanto Brian Eno), a partire dal nuovo millennio Battiato non si negherà incursioni televisive (con il programma culturale “Bitte, keine Réclame” per la Rai) e cinematografiche, impegnandosi su alcuni documentari (da ricordare quelli dedicati a Giuni Russo e a Gesualdo Bufalino) e, con ancora maggiore entusiasmo, su tre particolarissimi lungometraggi di finzione che, non convenzionali nella grammatica filmica, appaiono tuttavia non completamente controllati, lasciando una spiacevole sensazione di incompiutezza.

Verso il 2010 l’ipersensibilità di Franco deve avergli fatto intuire che stava avvicinandosi l’imbrunire, il declino di quel corpo da lui sempre rispettato e curato – anche attraverso la pratica della castità sessuale – ma considerato al contempo una prigione. Non si spiega altrimenti la complementarità degli ultimi tre progetti da lui portati avanti prima che il deterioramento cognitivo iniziasse a minarne le facoltà: l’album “Apriti sesamo” del 2012, il documentario “Temporary Road” del 2013 e il docu-reportage “Attraversando il Bardo” del 2014. Ognuna di queste opere è il tassello di un mosaico dal significato chiarissimo: me ne sto andando e desidero lasciarvi un consuntivo di ciò che di più importante ho appreso e compreso nel corso di questa mia vita; alla quale, secondo Franco, che credeva fermamente nella reincarnazione, ne seguiranno altre, così come altre l’avevano preceduta.

Se in “Apriti sesamo”, i cui versi finali recitano significativamente “e la fiaba finì”, si ascoltano passaggi inequivocabili come quello del brano “Testamento” (“Lascio agli amici gli anni felici / delle più audaci riflessioni. La libertà reciproca / di non avere legami”), in “Temporary Road”, una biografia artistica e umana che chi scrive ha avuto il privilegio di dirigere assieme a Mario Tani, sono contenuti i cardini del pensiero di Battiato, i precetti da lui ritenuti più importanti per poter condurre un’esistenza degna di essere vissuta.

In “Attraversando il Bardo”, una serie di colloqui con mistici e studiosi di varie parti del mondo (il Bardo è, nel buddismo tibetano, la fase di passaggio tra un’incarnazione e l’altra), si affronta infine, esplicitamente, il tema della morte, del congedo dal corpo materiale.

Nel 2019 vi sarà poi l’appendice rappresentata dalle canzoni “Torneremo ancora” e “Le nostre anime”, eseguite da Battiato con una voce ormai flebile ma non per questo meno coinvolgente e bella, anzi autentica e sincera come forse mai era accaduto in precedenza. Inseriti in un album pure intitolato “Le nostre anime”, su cui Franco, ormai provato, non ha potuto esercitare un controllo pieno come prima era sempre successo, i due brani sono il sigillo al trittico di cui abbiamo detto.

L’ultimo lascito di un essere speciale che non ha mai accettato che a sentirsi speciale non fosse ogni essere umano, e che si è speso con la sua immensa arte perché quanti più individui acquisiscano, evolvendosi, una tale consapevolezza.

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