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Luca Ravenna a TPI: “In scena sono sempre sincero, ma non tutto quello che racconto è vero”

Credit: The Comedy Club

“Sul palco scherzo principalmente su di me. Mi piace dire: sono un pirla, spero lo siate un po’ anche voi così siamo tutti più leggeri anziché far finta di essere super-fighi e senza macchia”. L'intervista al comico milanese sul nuovo numero di The Post Internazionale - TPI, in edicola da venerdì 6 maggio

Di Anna Ditta
Pubblicato il 7 Mag. 2022 alle 12:37 Aggiornato il 7 Mag. 2022 alle 12:38

Luca Ravenna, 34 anni, sta girando l’Italia con il suo nuovo spettacolo dal vivo “568”, uno show prodotto da The Comedy Club. TPI lo contatta dopo le prime tre date a Milano, alla vigilia della quarta in programma.

Com’è andata a Milano?
«Il teatro è a 100 metri dalla mia prima casa, quindi ci tenevo particolarmente. Sono state serate speciali, forse le più belle in assoluto».

La tua milanesità influisce sulla scrittura?
«Moltissimo. Il posto da cui provieni fa davvero tanto del tuo modo di pensare e di essere. Milano ha una forte identità, al tempo stesso senza quasi averne una. Questo è molto utile. Se ti prendi in giro è apprezzatissimo, anzi, è proprio il mio passepartout per le serate».

Pensi sia più difficile far ridere le persone in tempi di guerra?
«Sono salito sul palco a Padova il 24 febbraio, la sera dell’inizio dell’invasione della Russia, e non c’era per niente un bel clima. Erano tutti molto dispiaciuti e tristi. Però poi vedere le persone che ridono aumenta la soddisfazione».

Pensi sia lecito scherzare su tutto?
«Sono dell’idea che si possa e si debba fare, cercando però di conoscere il luogo in cui ti trovi, il pubblico che hai davanti e anche chi sei tu. Dire la cosa peggiore che ti viene in mente è facilissimo, capire perché ti venga voglia di dire quella cosa è molto difficile. Penso debba esserci quantomeno un motivo per farlo».

E il politically correct?
«Il linguaggio è il termometro della società, cambia col tempo, e se certe cose non puoi dirle con quella parola o con un’altra devi trovare il modo di spiegare come è avvenuto quel passaggio e che rapporto hai tu col linguaggio».

C’è un limite oltre il quale ti fermi?
«Sì e no. L’importante è non ragionare per stereotipi. Se parlo di omosessualità, non mi frega niente di fare la macchietta del gay. Parlare del proprio rapporto con l’omosessualità invece è figo, mi fa capire cose di me che magari non sapevo. Questo vale anche per il razzismo e per gli altri temi sui quali si è molto sensibili oggi».

Come il complottismo, un argomento che tu affronti nello spettacolo.
«Sì, è troppo divertente per non parlarne. Mi riferisco a questo bisogno di fare gli “sceneggiatori” di film da parte di un sacco di persone, unendo i puntini, capendo le cose prima degli altri, buttando via in realtà un sacco di tempo».

Coinvolgi anche tua mamma, che citi come esempio di persona no vax.
«Esattamente per quello che dicevo prima: un conto è parlare delle persone no vax, un conto è parlare del rapporto che puoi avere tu con una persona che ha questo tipo di idee. Questo mi sembra più onesto».

Lei come l’ha presa?
«Per fortuna la faccio ridere. Avere delle posizioni differenti è sempre interessante, l’importante secondo me è non fare come lei, che ha perso la possibilità di fare un sacco di cose per dei motivi su cui alla fine, quando vai a chiacchierarci, non riesci a raccapezzarti».

Riesci a scherzare anche sui tuoi problemi del passato, come la cleptomania.
«Sì, scherzo principalmente sulle mie cose. Mi fa ridere l’idea di dire: sono un pirla, spero lo siate un po’ anche voi così siamo tutti più leggeri nel dircelo a vicenda, anziché far finta di essere super-fighi e senza macchia».

Quanto sei sincero sul palco?
«Sincero al 100 per cento. Che tutto quello che racconto sia vero… questo non posso dirlo, perché l’importante, come in un film, è che sia verosimile. Andare sul palco e raccontare solo i fatti propri – così per come sono – vorrebbe dire scambiare lo spettacolo per una seduta di terapia».

È vero che la scrittura dello show cambia anche durante il tour?
«Assolutamente sì. È un lavoro continuo, in cui cerchi di cesellare lo spettacolo, in modo che sia più solido e preciso possibile. Poi se durante il tour scrivi pezzi migliori, allora aggiungi, tagli. Sennò che palle».

L’ultima data quindi è la più ricca?
«Rispondo come farebbe uno sportivo americano: la prossima è la più ricca».

È vero che nel tuo spettacolo citi anche TPI, per il festival a Sabaudia del 2019?
«Sì, apro lo spettacolo parlando della serata del TPIFest! a Sabaudia, con il confronto fra Santanché e Boldrini, e romanzando un po’ gli avvenimenti. Vi ringrazio per quella serata, è stato divertente e poi molto utile».

Ti dicono ancora che sei quello di Lol?
«Beh, se la gente viene a vedermi è perché, per fortuna, hanno visto che non sono solo quello di Lol. Altrimenti non andrebbero a vedere una persona affetta da mutismo, asociale, che dura poco in uno spettacolo visto da tantissime persone. Per il resto sì, capita che me lo dicano, ma mi fa solo piacere».

L’edizione di quest’anno ti è piaciuta?
«Sì. Era molto difficile riuscire a fare meglio della prima edizione, ma mi sembra che abbiano lavorato molto bene».

Hai sempre voluto fare questo lavoro?
«Penso di sì. Ho studiato sceneggiatura, ho lavorato come autore, mi piace tanto anche quello. È un lavoro profondamente diverso ma bello. Sono molto contento poi di essere salito sul palco e di aver avuto la fortuna che un po’ di persone venissero a vedermi».

Fai spesso autocritica?
«Totale, sempre e perennemente. Non sono mai contento fino allo spettacolo».

Un po’ di sindrome dell’impostore anche?
«No, non mi sento mai come se stessi fregando il pubblico, quantomeno sono sincero».

Progetti per il futuro?
«Sono molto scaramantico, anche se sono milanese sembro napoletano. Quindi un po’ li dico e un po’ no. Mi piacerebbe molto, visto che nello spettacolo prendo in giro il mondo del cinema, vedere se ho le palle di fare un film come vorrei io».
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