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Sguardi fieri e senza velo: il film che racconta i volti della rivoluzione femminile in Medio Oriente

Un'immagine del film "I am the revolution"

La regista di I Am the Revolution: "Le combattenti curde mi hanno insegnato a essere più dolce"

Di Giulia Riva
Pubblicato il 2 Mar. 2019 alle 09:45 Aggiornato il 25 Mag. 2019 alle 14:03

I AM THE REVOLUTION – “Essere donna fa la differenza. Non si tratta di qualità e nemmeno di merito, è questione di punto di vista. L’approccio alle cose è diverso. Letteralmente. Se devi inquadrare una donna e dietro alla macchina da presa c’è un’altra donna, è facile guardarsi negli occhi. Quando l’operatore è un uomo, c’è il rischio di fare riprese non alla pari, dall’alto in basso. Così ho scelto di farmi accompagnare in quest’avventura soltanto da altre ragazze: Lea Khayata, Arianna LaPenne, Francesca Tosarelli, Maryam Ashrafi e Andrea Di Cenzo. Anche l’editor del film è donna – Elena Toccafondi – e uno dei produttori, Elizabeth Panker”.

A parlare è Benedetta Argentieri, 37 anni, giornalista italiana che vive a New York. Il 25 febbraio 2019 ha debuttato a Milano – con il tutto esaurito al cinema Plinius – il suo primo documentario a solo: I Am the Revolution, prodotto da Possibile Film e Rai Cinema.

Tre donne, tre Paesi, tre rivoluzioni. Un titolo evocativo per una pellicola che segue da vicino la quotidianità di tre donne mediorientali in lotta per l’eguaglianza di genere: Rojda Felat, Yanar Mohammed e Selay Ghaffar.

Cambiano i paesi d’origine – rispettivamente Siria, Iraq e Afghanistan – e cambiano le modalità con cui la battaglia si porta avanti: Rojda è la mente strategica a capo delle combattenti curde contro l’Isis in Rojava; Yanar è un’attivista che da 17 anni gestisce rifugi antiviolenza non riconosciuti dal governo di Baghdad; Selay è la prima portavoce donna di Hambastagi – il Partito della solidarietà afgano – unica compagine politica laica a Kabul e dintorni.

Ciò che resta invariato è l’obiettivo: affermare l’emancipazione femminile, garantire istruzione alle giovani donne e mostrare al mondo che – anche in Paesi stravolti da decenni di guerra e fondamentalismo islamico – c’è qualcosa oltre ai volti delle madri velate e sottomesse con gli occhi bassi e bagnati di lacrime, che nella maggior parte dei casi, per i media internazionali, sono emblema di queste realtà.

Da vittime a combattenti. “Questo non significa che le donne non siano vittime”, chiarisce la regista.

“Gli americani sono arrivati su suolo afgano nel 2001 dicendo ‘Libereremo le donne!’, ma ad oggi solo il 14 per cento delle ragazze può andare a scuola. Ancora l’87 per cento della popolazione femminile subisce violenza ogni giorno, l’86 per cento non sa leggere e scrivere. C’è un livello d’oppressione difficile da spiegare, non paragonabile a quello delle nazioni limitrofe”, spiega.

“In Iraq invece tra le principali cause di morte per una donna c’è il delitto d’onore. Secondo la Sharia, l’interpretazione più rigida del Corano, se l’onore di una famiglia viene macchiato a causa di una donna – nel caso in cui quest’ultima sia stuprata, ad esempio – l’unico modo per ristabilirlo è ucciderla (di solito gettandola da una rupe) e inchiodare il palmo della sua mano sinistra alla porta di casa”, continua Argentieri.

“I rifugi coordinati da Yanar finora hanno salvato oltre 500 ragazze da questa sorte. Vuol dire che di vittime ce ne sono tante, ma che c’è anche chi non accetta più di esserlo: prende in mano il proprio destino e quello di chi è più debole di lei”, precisa la reporter.

Gli sguardi afgani e la dolcezza curda. Per lei questo film racchiude due anni di sforzi e settimane vissute fianco a fianco con le protagoniste del racconto.

“Sono stata inviata in zone di guerra per tanto tempo – troppo, forse, direbbero alcuni – ma sapere che ci sono altre persone che dipendono da te, che la loro sicurezza è una tua responsabilità, è più complicato che viaggiare da soli”, ammette.

Poi ricorda: “Il funerale a Rojava, che si vede verso la fine del film, forse è l’episodio che più mi è rimasto impresso. Ventidue persone morte in un posto dove avremmo dovuto essere anche noi. Siamo arrivate con due ore di ritardo, per questo siamo vive”.

“Dell’Afghanistan non dimenticherò mai lo sguardo di una donna. La sua condizione era quella che in lingua locale si definisce ‘badal’: quando due uomini maturi si scambiano le figlie giovani per sposarle a vicenda. Dopo la morte del marito, il cognato di questa donna ha cominciato a picchiarla, per convincerla a sposare anche lui. Non trovando supporto nella famiglia d’origine, lei è scappata e si è rivolta a Selay: i suoi occhi – un mix di terrore per il passato e di speranza per il futuro, di ammirazione nei confronti della leader che aveva di fronte – incarnano bene l’importanza dell’impegno politico di Selay Ghaffar”.

Un tipo di attività che è valso continue minacce di morte e una vita sotto scorta alla portavoce di Hambastagi, ma che sta facendo la differenza nel Paese dei talebani. “L’insegnamento più grande, però, mi è arrivato dalle combattenti curde”, rivela la regista.

“Sono le donne più donne che abbia mai incontrato e – anche se nell’immaginario collettivo somigliano a Lara Croft con il mitra imbracciato – mi hanno fatto capire l’importanza della dolcezza. Prima di incontrarle ero molto dura, pensavo di dover sempre dimostrare qualcosa, per farmi largo in un ambiente a maggioranza maschile come quello delle redazioni giornalistiche. Ora sono più solidale: bisogna avere fiducia tra noi femmine. Non significa che non ci saranno incomprensioni, ma che se si collabora si possono fare grandi cose”, sorride.

Aspettative tricolori. La soddisfazione più grande? “In America, dove il film è arrivato nelle sale già da qualche mese – è stato annoverato da Metro Usa tra i documentari più influenti del 2018 – vedere gente che non mi conosce ma esce dal cinema commossa. Dall’Italia non so cosa aspettarmi. Il fatto che le prime date della proiezione – il calendario completo è disponibile sul sito movieday.it – siano sold out è già un successo”.

“C’è un movimento femminista molto interessante, qui, forse ancora non organizzato al meglio. Da osservatrice esterna, credo che nel Belpaese si respiri un odio e un maschilismo shoccante”, fa notare.

La speranza è che il lungometraggio firmato Argentieri lanci un messaggio alle ragazze del nostro paese: “Noi tutte siamo la rivoluzione. Il contesto non conta, qualcosa si può fare. C’è sempre spazio per una rivoluzione. Qualunque essa sia: difendere l’aborto, i propri corpi. Oppure parlare di violenza e femminicidio in maniera organica”.

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